La Corte dell’Aja è riuscita a dividere l’Occidente meglio di Putin

Di Rodolfo Casadei
28 Novembre 2024
Il mandato d’arresto per Netanyahu e Gallant finisce per spaccare la Nato, un paradossale regalo politico proprio al presidente russo che la Cpi vorrebbe vedere in manette
Il primo ministro di Israele Benjamin Netanyahu con l’allora ministro della Difesa (poi estromesso) Yoav Gallant a Tel Aviv il 18 ottobre 2023
Il primo ministro di Israele Benjamin Netanyahu con l’allora ministro della Difesa (poi estromesso) Yoav Gallant a Tel Aviv il 18 ottobre 2023. Giovedì 21 novembre la Corte penale internazionale dell’Aja ha emesso un mandato di arresto nei confronti di entrambi per crimini di guerra e contro l’umanità commessi a Gaza (foto Ansa)

Oggetto di irrisione da tempo per la sua storica inclinazione a essere forte coi deboli e debole coi forti, per essere snobbata dalle principali potenze della scena internazionale, per la sostanziale inincidenza della sua azione sulla crudeltà dei conflitti in corso, la Corte penale internazionale (Cpi) s’è presa la sua rivincita col mandato d’arresto nei confronti di Benjamin Netanyahu e di Yoav Gallant. Non perché questa iniziativa legale abbia probabilità di sortire effetti giudiziari concreti, ma per le conseguenze politiche e geopolitiche della stessa. La Cpi sta dimostrando di essere capace di fare quello che nemmeno a Putin era riuscito quando ha deciso di attaccare l’Ucraina nel febbraio 2022: dividere il fronte occidentale, costringere i paesi aderenti alla Nato a procedere in ordine sparso, screditare la coesione del patto atlantico.

Chi si adegua e chi si indigna

Scrive Gideon Rachman sul Financial Times che «gran parte dei governi dell’Unione Europea, così come il Regno Unito, l’Australia e il Canada, probabilmente rispetteranno il provvedimento dell’accusa». “Gran parte” resta da vedere; sicuramente non tutti: Francia, Germania e Italia si destreggiano con dichiarazioni ambigue (che si riflettono sul G7), l’Ungheria ha addirittura invitato Netanyahu a visitare il paese senza preoccuparsi del mandato d’arresto.

I paesi Ue che si sono esposti preannunciando l’arresto del leader israeliano se dovesse mettere piede sul loro territorio sono medio-piccoli: Austria, Belgio, Irlanda, Olanda, Slovenia, Spagna. Però quattro di questi sono membri dell’Alleanza Atlantica.

Fra i paesi europei che non fanno parte della Ue ma che sono membri della Nato spiccano le dichiarazioni dei portavoce dei governi del già citato Regno Unito e della Norvegia, che annunciano che daranno attuazione alle richieste del pubblico ministero della Cpi.

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Contrarissimi invece gli Stati Uniti: il presidente Joe Biden ha definito la decisione della Corte «oltraggiosa» e un portavoce del Consiglio di Sicurezza nazionale dell’attuale amministrazione assicura che la Casa Bianca «respinge sostanzialmente» i mandati di arresto e che «rimaniamo profondamente preoccupati per la fretta del pubblico ministero di richiedere mandati di arresto e per i preoccupanti errori procedurali che hanno portato a questa decisione». Infine il consigliere per la sicurezza nazionale della futura amministrazione Trump, Mike Waltz, annuncia addirittura che il nuovo presidente prenderà provvedimenti contro i giudici dell’Aja, ed evoca «una forte risposta al pregiudizio antisemita della Cpi». Si ritiene che gli Stati Uniti adotteranno sanzioni personalizzate contro il pubblico ministero e lo staff della Corte e che addirittura stabiliranno provvedimenti punitivi contro i paesi che continueranno a finanziare la Cpi. Ora, i principali finanziatori sono niente meno che Giappone, Germania, Francia e Regno Unito.

Internazionale per modo di dire

Tanta cacofonia all’interno della coalizione occidentale non si ricordava dai giorni della seconda guerra del Golfo, quando Francia e Germania fecero di tutto perché l’intervento anglo-americano in Iraq non avesse la legittimazione del diritto internazionale. La differenza rispetto al 2003 è che in questo momento i paesi della Nato divisissimi sul da farsi con Netanyahu sono contemporaneamente impegnati, seppure indirettamente, in due conflitti, quello di Israele con Hamas e Hezbollah, e quello in Ucraina contro i russi. Perdurando tutte e tre le situazioni, è difficile immaginare che le divisioni rispetto al primo caso non abbiano ripercussioni sulla coesione del campo occidentale rispetto agli altri due.

Non male per un’istituzione nata già mezza morta nel 1998, quando fu firmato il Trattato di Roma che la istituiva, e ancor di più dopo la sua entrata in funzione nel 2002. I fan del diritto internazionale enfatizzano il fatto che 124 paesi su 193 rappresentati alle Nazioni Unite aderiscono allo Statuto di Roma e a tutto ciò che esso prevede, ma a uno sguardo più ravvicinato si scopre che la maggioranza dell’umanità non obbedisce agli ordini del procuratore dell’Aja.

Non hanno mai aderito al trattato o lo hanno abbandonato o non lo hanno ratificato dopo che lo avevano firmato colossi demografici e geopolitici come Algeria, Arabia Saudita, Cina, Egitto, Etiopia, Filippine, India, Indonesia, Iran, Marocco, Myanmar, Pakistan, Russia, Stati Uniti, Thailandia, Turchia, Vietnam. Questi 17 paesi rappresentano quasi il 60 per cento dell’umanità. E fra di essi compaiono 3 dei 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu.

Questo spiega perché nei venti e passa anni della sua esistenza il tribunale ha incriminato quasi soltanto militari e guerriglieri africani e ne ha condannati in tutto una mezza dozzina. Delle 12 indagini attualmente in corso solo quella a carico di esponenti del governo russo per atti riguardanti il conflitto con l’Ucraina comporta ordini di arresto contro dirigenti di un paese membro del Consiglio di Sicurezza; 7 riguardano paesi africani, 3 paesi asiatici.

Il precedente di Putin in Mongolia

Il fatto che Stati che hanno ratificato il Trattato di Roma come l’Ungheria abbiano fatto sapere che non arresteranno gli esponenti israeliani per i quali è stato recentemente spiccato un mandato di arresto non costituisce il primo caso di disapplicazione dello statuto della Cpi da parte di un paese aderente. Senza andare al precedente del 2015, quando il Sudafrica firmatario del Trattato di Roma si rifiutò di arrestare l’allora presidente sudanese Omar al-Bashir inseguito dai mandati della Cpi, basti ricordare che non più tardi del 2 settembre scorso Vladimir Putin si è recato in Mongolia, paese che riconosce la giurisdizione della Cpi, ma le autorità locali non lo hanno arrestato, anzi lo hanno accolto con gli onori che spettano a un capo di Stato.

Il tribunale dell’Aja ha aperto una procedura di infrazione contro la Mongolia, che potrebbe sfociare in una richiesta di sanzioni internazionali che andrebbe sottoposta all’approvazione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, dove siede come membro permanente con diritto di veto… un diplomatico russo che rappresenta il governo presieduto da Putin!

Un regalo involontario a Mosca

Non è questo però il paradosso principale della vicenda. Il paradosso più grande sta nel fatto che il tribunale che vorrebbe mettere le manette al presidente russo è lo stesso che gli ha fatto (certo involontariamente) un grosso regalo politico emettendo un provvedimento contro i leader israeliani che semina la divisione nel campo dei suoi avversari, cioè della Nato.

La vicenda della Cpi è paradigmatica delle logiche reali che sottendono i rapporti internazionali: il tribunale fu pensato e poi istituito in un’epoca in cui si immaginava un mondo integrato economicamente e istituzionalmente a trazione americana, alla quale si sarebbero associate in ruoli junior Russia e Cina. Ma gli Stati Uniti non riescono più a imporre la loro egemonia, e Russia e Cina agiscono come attori insoddisfatti degli assetti di potere globali, che intendono modificare a proprio vantaggio. Quando il ruolo di un egemone è contestato e allo stesso tempo non esistono accordi per regolare i rapporti di potere in un mondo multipolare, le istituzioni multilaterali perdono efficacia e infine legittimità. Restano come elementi di perturbazione delle relazioni politiche e militari.

@RodolfoCasadei

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