Federico Palmaroli racconta la tirannia dell'algoritmo politicamente corretto sui social e la difficoltà di fare satira negli ultimi due anni: «Lo scopo è far sorridere, non riflettere»
Due giorni fa le prime pagine dei principali giornali italiani riportavano allarmate la notizia secondo cui l’oligarca russo Roman Abramovich sarebbe stato avvelenato in occasione di una riunione per i negoziati di pace tra Russia e Ucraina. Nelle stesse ore sui canali social di Federico Palmaroli, in arte Osho, e sulla prima pagina del Tempo, che ogni giorno ospita le sue “vignette”, compariva una foto con un Abramovich accigliato e questo testo: «Lasciateme perde che sto avvelenato».
«Che ve faccio preparà da magnà?», chiede Erdogan in un’altra vignetta ai negoziatori delle due parti: «’n te preoccupà, noi se semo portati i panini», rispondono gli ucraini. «Come dovrebbero raegire alla guerra i vignettisti?», si chiedeva martedì sullo Spectator Nick Newman, risollevando l’annosa domanda sui limiti e i compiti della satire durante le emergenze. Tempi l’ha girata proprio a Osho, che fa satira da anni, è diventato famoso grazie ai social, che quotidianamente inonda di battute, collabora con un quotidiano e con una trasmissione tv, “Porta a Porta”, scrive libri che raccolgono le sue vignette migliori (l’ultimo è Carcola che ve sfonno), ed è pure su Rai Play con una serie tv.
«Gli ultimi due anni sono stati un periodo terribile per tutti, anche per chi fa satira. È più difficile, perché tocchi temi scottanti, non prendi in giro solo la politica, ma una chiave ironica si trova quasi sempre. Con la pandemia il problema è stato che dopo i primi tempi, quando si scherzava sulle novità del primo lockdown, delle mascherine, dei Dpcm… tutto è diventato ripetitivo, ciclico. Il difficile era trovare spunti nuovi: la politica è scomparsa, si parlava solo di colori delle regioni, vaccini, terze dosi, ondate… La narrazione giornalistica era una noia, ma pure la satira!».
Sulla guerra, dice Palmaroli, «il discorso è diverso: è più difficile scherzare, c’è più sensibilità nelle persone. Intanto è più difficile a livello fotografico trovare immagini sulla guerra su cui fare battute». C’è poi un aspetto fondamentale nel lavoro di Osho, e cioè che il suo pubblico è principalmente quello dei social, e una vignetta “funziona” se viene condivisa da più persone. Ecco perché negli ultimi giorni è più raro trovare sue vignette con una foto di Putin: «La gente le condivide meno volentieri, come ovvio».
Eppure i social vivono di polemiche, sembra che la gente vada lì solo per quello, e a volte fare i martiri della censura rende: «Sì ma io non le uso a mio vantaggio, odio le diatribe social, gli hater… poi mi conosco, se c’è il giorno in cui me rode e inizio a rispondere male, mi si chiude la vena, è la fine. Per questo a volte evito di fare battute che potrebbero scatenare risse virtuali. Poi ovvio, se mi viene il capolavoro… sticazzi… lo pubblico e basta». La battuta su Abramovich, visto il tono con cui la notizia era stata data, era rischiosa: «Ma no… Lui non è morto, manco si è capito bene come è andata, quell’espressione romanesca vuol dire che gli girano i coglioni, la seccatura maggiore per ora è che gli hanno sequestrato il Chelsea e le barche, alla fine sto avvelenamento sembrava meno di una indigestione di peperonata». Se fosse morto l’avresti fatta? «No. Ci sono limiti che mi sono dato: su salute e morte non scherzo». Non avrebbe fatto la battuta di Chris Rock sulla moglie di Will Smith, dice, e ieri ha criticato su Facebook la squallida uscita di un aspirante comico di Zelig sulla morte di Carol Maltesi.
«Ma il vero limite che mi sono autoimposto è che non voglio rotture di coglioni», ammette. Non parla solo di polemiche, ma del grande giudice di tutto ciò che oggi viene messo online, satira compresa: l’algoritmo. «Mi guardo bene dal pubblicare alcune cose perché so che se in una battuta uso determinati termini o vado troppo contro il politicamente corretto mi bloccano. Questo è un limite, ma per uno come me che sta sui social è determinante non essere bannato».
Niente prediche ideali sui limiti o la missione sacra della satira, Palmaroli è molto onesto, certamente realista. «Di fatto non c’è un contesto in cui posso spingere liberamente fino in fondo. Sui social ci sono gli algoritmi, “Porta a Porta” è la Rai, banalmente non posso mettere parolacce, sul Tempo mi prendo più libertà ma è comunque un giornale con un direttore responsabile che non sono io. Forse se dovessi solo fare i libro spingerei di più, ne metterei alcune per cui invece mi autocensuro».
Non sarà vero che non-si-può-più-dire-niente, ma certe cose è meglio non dirle, insomma. «Il limite si è spostato negli ultimi anni: io sono del 1973, ho visto cambiare questa “sensibilità” nella gente, film o comicità che si facevano negli anni Ottanta e Novanta oggi sarebbero impensabili, ma banalmente cose che fino a poco tempo fa non venivano segnalate dai social ora lo sono. Mi è capitato addirittura di avere post con battute vecchie di anni improvvisamente sospesi perché nel frattempo “è cambiata la policy”. C’è stato un acutizzarsi del fenomeno del politicamente corretto, soprattutto sui temi cari al pensiero progressista, da cui la gente si fa condizionare sempre di più: persone a cui non fregava niente, di colpo sono sensibili a qualunque offesa».
Un esempio? «Anni fa feci una vignetta sulla monnezza a Roma: c’era la foto di due zingari che rovistavano in un cassonetto e dicevano: “Fanculo, ce sta la stessa roba di un mese fa”. Oggi sarebbe bannata. Un altro argomento su cui non può scherzare è l’omosessualità, ma a livelli surreali: non si può più essere liberi di citare il “benvenuti a sti frocioni” di Lino Banfi, perché sai che l’algoritmo ti bloccherebbe». Non è vero che si può dire tutto, «ci si muove in una cristalleria, ma noi autori di satira non possiamo neanche fare le educande». E il sacro compito della satira, quello di fare pensare chi la vede? «Io penso che il primo compito della satira sia fare sorridere, non fare riflettere. La mia satira è quella della battuta dei romani al bar. Sintetizzo il tema del giorno facendo emergere le contraddizioni: se questo poi fa riflettere, ben venga. Ma non è il mio problema».
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