«Ita punti all’Europa. La “romanità” di Alitalia ha fatto danni enormi»
Ancora ieri, dopo il passaggio last minute venerdì sera dello storico marchio dalla vecchia compagnia di bandiera alla nuova, i giornali si divertivano a titolare che «Ita si chiamerà Alitalia». Si sono sprecate ultimamente ironie e critiche sul presunto mancato rispetto della famosa «discontinuità economica» pretesa dalla Commissione europea per dare il via libera alla nascita del nuovo vettore statale. Però ieri i vertici della newco hanno annunciato in conferenza stampa che Ita non si chiamerà affatto Alitalia, bensì Ita Airways, le livree cambieranno, le divise pure. I segni della discontinuità chiesta dall’Europa, insomma, «oggi si vedono» e non solo esteriormente: ha finito per convincersene anche Roberto Zucchetti, docente di economia dei trasporti all’Università Bocconi, che pure nei mesi scorsi non aveva esitato a descrivere la trattativa come «una commedia degli equivoci», messa in scena in sostanza per non dover prendere atto del sanguinoso fallimento di Alitalia.
Dove si vede questa discontinuità?
Ricordo solo alcuni elementi oggettivi. Primo: Ita ha 2.800 dipendenti anziché gli oltre 10 mila di Alitalia, quindi si parte con una compagnia estremamente snella, per altro priva delle pesanti sovrastrutture amministrative e dirigenziali che sono il vero problema di questo tipo di imprese. Non c’è continuità nemmeno sul contratto di lavoro. Secondo elemento: aerei vecchi e di tanti tipi diversi comportavano per Alitalia costi di manutenzione enormi; Ita ha annunciato contratti per aerei nuovi e tutti dello stesso tipo, con manutenzione probabilmente garantita dal produttore. Un grosso problema in meno. Ancora: il drastico taglio di rotte, criticato da molti come segno di scarsa ambizione, secondo me invece un modo per non perdere subito soldi, perché quelle abbandonate sono rotte antieconomiche.
La commedia degli equivoci è finita?
Parlavo di commedia degli equivoci perché c’era un intento non dichiarato ma chiarissimo: creare una nuova società con 3 miliardi di euro e travasarci dentro la vecchia, in modo che tutti potessero continuare a mangiare per un po’. Questo non è avvenuto. C’è stato invece un braccio di ferro lungo e teso, rimasto sotto traccia ultimamente, ma che ha prodotto esiti visibili.
Non si voleva prendere atto del fallimento di Alitalia.
Invece oggi se ne è preso atto: quello che resta nella gestione commissariale di Alitalia è evidentemente un fallimento, le persone vengono lasciate a casa perché non c’è più lavoro. Per altro abbiamo assicurato loro privilegi unici rispetto a tutti gli altri lavoratori che perdono il posto. Comunque il grande taglio è avvenuto.
Tutto ciò per corrispondere a quanto ci ha imposto l’Europa.
Posso dirlo? Ringraziamo in ginocchio l’Europa. Altrimenti saremmo tornati a mettere in piedi un carrozzone che si sarebbe presto mangiato 3 miliardi di euro. Che Ita funzioni non è ancora detto, ma le premesse sono diverse rispetto ai “salvataggi” passati.
La trattativa sul marchio però è parsa ancora parte del teatrino: Alitalia lo mette all’asta a una cifra esorbitante (290 milioni) per cederlo alla fine a 90 milioni, addirittura meno di quanto lo valutava Bruxelles (110).
La trattativa è stata sicuramente gestita in modo strano, forse per evitare che il marchio finisse in altre mani: al di là del simbolo e della livrea, erano fondamentali il sistema di prenotazione e il codice di volo di Alitalia, senza i quali Ita non avrebbe potuto essere immediatamente operativa.
Poi il presidente di Ita Alfredo Altavilla ha detto in conferenza stampa che «i soldi del marchio erano necessari per tenere in vita la gestione commissariale di Alitalia, che significa prima di tutto continuare a pagare degli stipendi a persone che non verranno a lavorare in Ita».
Non mi sorprenderei se ci fosse anche questo. Qui il padrone sta sia nella mano destra che nella mano sinistra, e i soldi sono sempre i nostri.
Qualche elemento di continuità però c’è, dicono diversi osservatori.
Ce ne sono tanti.
Scrive Repubblica: «Se convinti che questa discontinuità non si è realizzata, i competitori presenteranno degli esposti alla Commissione Ue». È quello che succederà?
Sono sicuro che ci saranno esposti. Sono anche sicuro che il presidente del Consiglio si sia premurato di fare qualche verifica preventiva riguardo al gradimento dell’operazione a Bruxelles.
Resta poi tutta una serie di altri problemi aperti, a cominciare dalle dispute con i sindacati su posti di lavoro e stipendi, decurtati del 38 per cento per chi è passato da Alitalia a Ita.
Ita ha 2.800 lavoratori assunti che hanno tutto l’interesse a che l’azienda non venga gravata da oneri ulteriori. La trattativa del sindacato riguarda gli interessi dei lavoratori che non sono entrati in Ita: non riguarda Ita, ma la gestione commissariale di Alitalia ed eventualmente lo Stato azionista. Il vero problema aperto è un altro.
Quale?
Circolava una battuta in Alitalia: per scoprire quale partito voti qualunque dipendente, basta sapere in che anno è stato assunto e chi c’era all’epoca al governo… Ironie a parte, la domanda è: che cosa impedirà a Ita di essere inquinata dalla politica come lo è stata Alitalia? Qual è la barriera che la difenderà dagli oneri impropri della politica?
Risposta?
Non lo so, è appunto un problema aperto.
Questi oneri impropri quanto sono costati al contribuente, “salvataggio” dopo “salvataggio”?
Tanto. Penso che la parola “tanto” sia sufficiente.
E che vantaggio ne ha ricavato il paese?
Pochissimo vantaggio, forse nessuno. Anzi ha ricavato dei danni.
Ma senza una compagnia di bandiera, si dice, certe località periferiche non sarebbero mai state servite.
Questa è la grande bugia che circola da anni. Io dico che è vero il contrario. Numeri alla mano, il Mezzogiorno ha pagato la gestione pubblica di Alitalia con prezzi altissimi e servizi scadenti. Da quando ci sono le low cost, il Sud ha un servizio efficiente a costi molto più bassi. Anziché servire la parte più svantaggiata del paese, Alitalia è stata un freno.
Dobbiamo ringraziare anche le low cost?
Anche sulle low cost in realtà bisognerebbe affrontare un grande problema aperto: le politiche di favori praticate dagli aeroporti verso di loro. È ora di averne piena visibilità e di procedere a un riequilibrio, è nell’interesse di tutti.
Torniamo a Ita: il piano industriale è convincente?
Il piano industriale dice e non dice. Bisogna capire dove vorrà andare veramente Ita. L’obiettivo può essere farsi bella per trovare uno sposo adeguato, ossia entrare fra 2-4 anni in una grande alleanza o diventare parte di un gruppo più forte. Credo sia questo lo scenario più interessante: è finita l’epoca delle compagnie nazionali, meglio puntare ad avere vettori europei che guardano con uguale interesse diversi paesi d’Europa.
La ricerca di un partner industriare è uno degli obiettivi dichiarati di Ita. Il partner più papabile, si dice, sarebbe Lufthansa. Ma si dice anche: viste le ridotte dimensioni di Ita, alleanza significa nei fatti vendita.
La parola vendita potrebbe non essere precisa. Piuttosto parlerei di conferimento: una fusione con una società più grande, con attenzione a mantenere una quota azionaria in grado di condizionare scelte determinanti per la tutela di alcuni interessi.
Quali interessi?
Gli interessi da tutelare sono gli hub, gli aeroporti dove decollano e atterrano i voli intercontinentali diretti, perché sono questi che attraggono aziende e istituzioni internazionali. Bisogna mettersi nei panni di una multinazionale: se devo scegliere il posto per la mia sede in Europa, e per venire a Milano devo passare ogni volta da Francoforte, metterò la sede a Francoforte; se invece ci fosse un hub anche a Milano, come minimo mi chiederei se scegliere Francoforte o Milano. E qui, a proposito di Milano, bisognerebbe ricordare Carlo Verri.
Cosa c’entra Carlo Verri?
Verri è stato presidente di Alitalia, morì tragicamente nel 1989 in un incidente stradale subito dopo una riunione del Cda. All’epoca c’era una tensione fortissima in Alitalia, perché Verri stava mettendo in discussione lo status quo; in particolare aveva proposto che la direzione commerciale di Alitalia fosse trasferita a Milano, perché a Milano stava il mercato “ricco”. Ecco. Io per lavoro anni fa ho avuto in mano i dati di residenza dei dipendenti di Alitalia. Ebbene, Alitalia era una compagnia romana. Neanche laziale: proprio romana. Non ricordo i numeri esatti, ma più dell’80 per cento dei dipendenti Alitalia abitava in una sola città, Roma.
Dove vuole arrivare?
Io penso che il fatto che la nuova compagnia si allontani dalla dipendenza dalla città di Roma sia assolutamente indispensabile. Questo anche per gli interessi di noi lombardi, di Milano in particolare.
Non solo il Sud, anche il Nord è stato penalizzato da Alitalia?
Milano ha pagato un prezzo carissimo ad Alitalia. Non voglio entrare in aspetti troppo tecnici, ma è un fatto che Milano è stata privata per lungo tempo di voli intercontinentali solo perché Alitalia non aveva interesse a coinvolgere Milano nelle trattative con i paesi di destinazione. Anche l’aeroporto di Malpensa è una vittima di Alitalia.
Vittima della “romanità” di Alitalia.
Certo. C’erano equipaggi – questo è noto – che partivano la sera da Roma (in servizio), dormivano a Milano (in servizio), per poi decollare il giorno dopo da Malpensa. Ma che senso aveva?
E adesso stiamo voltando pagina?
Così pare. Ma ripeto: occorre vedere se reggerà la barriera che fino a questo momento sembra avere protetto la nuova azienda dall’influenza nefasta della politica.
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