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Io, passeggero dell’ultimo volo Alitalia

A parte la nostalgia per un pezzo di storia del Paese, dobbiamo farci qualche domanda sul perché ci si sia ridotti negli ultimi 25 anni a non sostenere il business di una compagnia aerea.

Carlo Fei
15/10/2021 - 9:15
Società
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Aereo Alitalia

Le lacrime della hostess di terra presente all’imbarco dell’ultimo volo Alitalia da Venezia, mi hanno contagiato.

Ed è stato l’ultimo volo Alitalia anche per me.

Da quando ero bambino quasi sempre ho volato Alitalia e da adulto, quando l’itinerario lo consentiva, Alitalia è stata sempre la mia scelta preferenziale.

In ogni momento della mia vita infatti c’è stata l’Alitalia.

Alitalia nei miei sogni da bambino

Il primo volo della mia vita mi è stato raccontato: avevo tre mesi e l’aereo era un Caravelle ovviamente dell’Alitalia. Nato a Bruxelles, con mia madre tornai qualche giorno in Italia per farmi conoscere agli zii che abitavano in Italia. Qualche anno dopo tornammo in Italia e Alitalia continuò ad essere presente nei miei sogni di bambino.

I frequenti viaggi di mio padre (allora faceva il direttore finanziario estero di Olivetti) erano lunghi e i suoi ritorni erano sempre una grande festa accompagnata da qualche regalo dal Brasile, l’Argentina, gli Usa, ma quelli che ricordo mi piacevano di più erano i gadget, i modellini acquistati a bordo e le immancabili trousse in tessuto con il vecchio logo di Alitalia.

Poi ci furono i viaggi da adolescente con i miei in Usa, Sud America, Giappone. Seguirono quelli quando lavoravo alla Disney e andavo ogni mese a Los Angeles o quando ci andavo da imprenditore. I viaggi con la mia famiglia in Argentina e Usa. Il mio pendolarismo con New York da consulente o semplicemente con Roma.

Standard italiani

I 75 voli presi nel 2019 (il 2020 non conta…) e così più o meno negli ultimi 30 anni della mia vita, hanno fatto sì che spesso venissi riconosciuto da equipaggi che mi accoglievano salutandomi per nome.

E in Alitalia ho vissuto le migliori e le peggiori esperienze in assoluto mai provate in una compagnia aerea: noi italiani non amiamo gli standard e sforiamo sempre ogni scala: non importa se in alto o in basso.

Il grande interrogativo

Mi dispiace. Molti, dell’equipaggio che oggi ho incontrato in aereo, da domani non lavoreranno più.

Certo, e non voglio unirmi al seppur legittimo coro che vorrebbe dir loro “benvenuti nel mondo reale cari dipendenti fino a ieri privilegiati di Alitalia”, anche in altri settori la disoccupazione è arrivata prepotentemente in questo ultimo anno e mezzo di Covid, ma il fallimento di Alitalia è stato un iceberg visto nei radar da tempo e sconsideratamente ignorato.

La fine di Alitalia rappresenta il capolinea di un’era per l’Italia e per molte persone: lavoratori e viaggiatori.

Ma a parte la nostalgia per quel pezzo di storia di questo Paese che ci ha accompagnato dal dopoguerra ad oggi, resta il grande interrogativo del perché la seconda meta turistica d’Europa, il secondo esportatore europeo nel mondo che dispone di un “traffico naturale” di viaggiatori, si sia ridotto negli ultimi 25 anni a non sostenere il business di una compagnia aerea.

Mai una strada per il rilancio

Prima di noi solo la Svizzera e il Belgio hanno gettato la spugna delle loro compagnie di bandiera cedendole ad altri. Due Paesi che, con tutto il rispetto, ciascuno dispone di soli 2 aeroporti internazionali, e contano una popolazione che sommata non arriva ad un terzo della nostra ed un traffico business e turistico certamente non paragonabile.

Nei mille rilanci di Alitalia non si è mai veramente visto un piano industriale che avesse senso, tra politica, sindacati, capitani coraggiosi e tra le mille voci che si sono negli anni levate per salvare la compagnia di bandiera, nessuna ha mai davvero voluto indicare la strada del rilancio.

E così dai “licenziati” nel 2008 con 7 anni di stipendio all’80% (compresi i piloti alcuni dei quali hanno ricevuto anche 8/10mila euro netti mensili per starsene a casa a non far nulla…), si è arrivati alla cessione degli slot più profittevoli per tamponare i debiti.

Pacchetto regalo per Lufthansa?

Manager inesperti o condizionati dalla politica (o entrambe le cose) che non hanno saputo uscire dal pantano.
Eppure, salire su un aereo Alitalia dopo una settimana intensa di lavoro in un paese straniero, era un po’ come sentirsi a casa prima di essere arrivati a destinazione. E lo era anche per molti turisti che anticipavano la loro vacanza agognata nel Paese della dolce vita salendo sull’aereo Alitalia (peraltro talvolta rimanendo delusi per il trattamento ricevuto che non era sempre così dolce…).

Certo dopo il patetico esperimento dei capitani coraggiosi che inserirono nel pacchetto di rilancio anche i debiti di AirOne o il tentativo imbarazzante di Ethiad che si affrettò, tra le altre cose, a rivedere la livrea degli aeroplani (e le famose discusse divise del personale) cambiando persino il verde del nostro tricolore utilizzando una tonalità più vicina ai colori Emiratini, la dicono lunga di come sia stato trattato e svuotato un asset che nel tempo ha perso il suo valore.

Con i denari sprecati negli anni si sarebbe potuto costruire una compagnia aerea con una flotta simile a quella di Emirates. Oggi le briciole di tutto ciò si chiamano ITA con una flotta di 52 aerei (circa il 10% di quella di Ryanair ed il 20% di quella di AirFrance-KLM) e la promessa che diventerà competitiva, profittevole, grande, assume la credibilità di una favoletta. Tra il personale di Alitalia gira la voce che si stia preparando il confezionamento del pacchetto regalo che tra un anno verrà offerto a Lufthansa. Vedremo.

Italia terra di conquista

Resta l’amarezza di un’occasione clamorosa mancata di far viaggiare il Made in Italy in giro per il mondo. Una dichiarazione di intenti sventolata retoricamente da tutti ma mai davvero messa in atto con determinazione e in maniera strutturata che andasse oltre le azioni tattiche e le co-promotion mai seriamente integrate in una Customer Experience caratterizzata, consapevole, differenziante e condivisa da tutte le risorse umane.

Quale sarà l’impatto sull’Italia che vola (e non solo) diventata terra di conquista di low-cost, di altre compagnie (europee e non), non è dato saperlo.

Uscita di scena mal gestita

L’asta del Brand Alitalia è andata deserta. 290 milioni appaiono un’enormità evidentemente non solo al sottoscritto. I Brand rappresentano l’idea che esiste nella mente dei consumatori e sono i più tangibili tra gli asset intangibili. Fatti di reputazione e di capacità di produrre reddito sono mantenuti in vita dalle persone che tali brand rappresentano modellando l’idea che esiste nella mente degli stakeholders.

Le persone che oggi avevano le lacrime agli occhi non ci saranno più e del brand di Alitalia resterà un logo un po’ sbiadito svuotato delle persone, con una reputazione inquinata da un’uscita di scena mal gestita e ancora ad oggi caratterizzata dall’incertezza che assume sempre di più le caratteristiche dell’improvvisazione.

Quale dopo-Alitalia?

L’Antitrust, che fino a prova contraria è un’istituzione che ha come priorità la tutela dei consumatori, proprio su di essi si è accanita impedendo ai numerosi fedeli viaggatori MilleMiglia di poter avere continuità nella naturale impoverita erede di Alitalia ritrovando il proprio credito finire all’asta forse nel paniere di un marchio della grande distribuzione o di una catena di profumerie.

Difficile prevedere il dopo-Alitalia se non si è riusciti a programmarne il durante.

Certo è che la fine di un brand iconico per tutti, avrebbe meritato un’uscita di scena più onorevole a tutela di ciò che è stato ed ha rappresentato. Almeno così mi è parso oggi, dal posto 1C dell’ultimo volo di Alitalia.

L’autore è Professor of Practice Luxury and Fashion Management
Department of Business and Management and Luiss Business School
Università LUISS Guido Carli

Foto Ansa – Fei

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