Israele, appello per la pace. «Preghiera e digiuno sono le nostre armi»
Non è facile, non è mai stata facile la vita di Violet. Ha cinquant’anni. Palestinese, cristiana ortodossa, abita da sempre nella città vecchia di Gerusalemme, nel quartiere cristiano, in un piccolo appartamento a pochi passi dal Santo Sepolcro, in quella parte del quartiere stretto tra il suk frequentato dai turisti e le vecchie case che risalgono al tempo degli ottomani, dove si sentono i canti delle liturgie greche e latine che arrivano dalla chiesa dell’Anastasi, la Resurrezione.
Il marito di Violet fa lavori saltuari, i suoi due fratelli hanno pesanti handicap, i genitori sono malati. Lei lavora come collaboratrice domestica per alcune famiglie che abitano più a ovest, sulla Jaffa Street, nella colonia germanica. È stimata da tutti, ha le chiavi degli appartamenti. Quel lavoro è importante per tutta la sua famiglia, ma ora non può andare in quelle abitazioni: sono nel settore ovest della città, quei quartieri sono per lo più abitati da ebrei e per una palestinese, come per tanti palestinesi che fanno lavori saltuari o sono impiegati nell’edilizia o nella nettezza urbana, sono ora zone pericolose. Il terrorismo e l’odio hanno colpito anche loro. «Non posso andare a lavorare nel settore ebraico», ci dice Violet, «ho paura. Mia figlia non può andare a scuola, che è proprio sull’invisibile confine che divide la città. Fa lezione via Zoom, ma non so come potremo andare avanti».
Uscire di casa è pericoloso
I cristiani di Terra Santa hanno saputo della giornata di digiuno e preghiera chiesta dal cardinal Pizzaballa. Anche gli ortodossi sono rimasti colpiti dal messaggio di solidarietà. «Una speranza, quando sembra che non ci sia speranza», dice. «Preghiera e digiuno sono le nostre armi. Ci troviamo insieme a pregare». Nei piccoli appartamenti le famiglie si ritrovano, mentre poco lontano suonano le campane della basilica del Santo Sepolcro. Uscire di casa è pericoloso, anche nella città vecchia la divisione corre lungo le strade che attraversano i quartieri cristiano, musulmano, ebreo ed armeno (dove si piange anche un altro sterminio che il mondo ignora).
Rony Tabash, palestinese cattolico, abita a Betlemme, la sua famiglia ha il negozio più antico della città dove è nato Gesù, nella piazza della mangiatoia, accanto alla basilica della Natività. Vende articoli religiosi, dà da vivere a cinquanta famiglie che intagliano presepi nell’ulivo: ma ora tutto è fermo. Due anni di chiusura per il Covid non avevano distrutto la speranza: «Siamo i soldati della mangiatoia», diceva Rony, «la nostra forza è quella culla di un Re senza armi». Ma ora la sua voce sembra incrinarsi: «Siamo forti», ripete, «di una forza che ci è data, ma la speranza umana ora sembra svanita. Abbiamo resistito a guerre e pandemia, ma ora è peggio, peggio di tutto».
«Dateci la vostra forza»
Poco distante c’è il campo profughi e spesso si sentono i colpi di mitra. Vent’anni fa, la basilica fu teatro di un lungo assedio: vi si erano barricati duecento guerriglieri palestinesi, la piazza circondata dai carri armati israeliani. Fu la mediazione dei frati francescani a evitare lo scontro e decine di morti. «Mai più», si disse. Ma ora la parola “assedio” evoca altri orrori. E i cristiani sono ancora una volta vittime e, paradossalmente, protagonisti di una pace che non nasce dalle armi.
«Una pace che costruiamo dentro di noi», dice Rony, «e sappiamo che il Papa è con noi, che l’Italia è con noi. Dateci la sola arma della vostra preghiera, del vostro digiuno. Mio figlio, 12 anni, è un bambino coraggioso ma ora vuole dormire con me e io non so cosa dirgli, come spiegargli cosa sta accadendo. Dateci la vostra forza, sappiamo che siete con noi». Nove anni fa, Rony cantò in piazza per il Papa arrivato a Betlemme. Francesco lo incontrò, abbracciò i cristiani di Betlemme come aveva fatto prima di lui Benedetto.
Una, la sola, speranza
Il ricordo di quell’abbraccio scalda il cuore di Rony che stringe suo figlio e pensa ai tanti che non hanno di che vivere. Con la sola speranza che è rimasta. «In questo abbraccio siamo forti, forti, scrivilo per favore agli amici italiani. Abbiamo paura, tanta, davvero tanta. Ma con voi siamo forti. Forti!». Ed è un grido dolce, senza odio né rancore. Fiducioso nella sola preghiera invocata dal cardinal Pizzaballa. «È questo il modo in cui ci ritroviamo tutti riuniti, nonostante tutto, a incontrarci nella preghiera corale per consegnare a Dio Padre la nostra sete di pace, di giustizia e di riconciliazione».
Chi può dire quanto vale questo coro, che sembra inutile e flebile di fronte al fragore delle armi che suonano di morte? Per Violet, per Rony, per i loro figli, per le vittime del terrorismo, per gli ostaggi della Morte, per le loro famiglie, per gli inermi intrappolati a Gaza quel coro suona come un’ultima parola di positività. Sembra una umana follia. Per loro è più di un conforto: è una, la sola, speranza.
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