Israele-Iran: quando si minaccia una guerra, prima o poi si fa
Cantano tutti vittoria. Teheran celebra l’operazione “Promessa vera”, in cui ha lanciato 300 missili e droni contro Israele. Poco importa – sembra dire l’Iran – se non ci sono state vittime e la difesa israeliana, appoggiata da Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Giordania, ha fermato quasi tutti i droni in volo. «Abbiamo fatto capire a Israele e al mondo – è il senso del comunicato rilasciato dall’Iran dopo l’attacco – che possiamo colpire, che non possono sentirsi invincibili, che abbiamo la forza e le risorse per un’altra ondata. Se lo capiscono bene, per ora, per noi finisce qui».
Un messaggio minaccioso, ma che fissa dei limiti. E non è chiaro se i droni e i missili lanciati in tre ondate da Iran, Libano Sud, Iraq e Yemen avessero come obiettivo basi militari o città. Di certo, i pochi che hanno superato la barriera di Iron Dome, il sistema antimissilistico israeliano, hanno fatto solo una trentina di feriti, raggiunti dai detriti precipitati dai razzi intercettati e distrutti. Ma il messaggio resta e questo basta per far esultare l’Iran e i suoi alleati, le milizie sciite sparse in Libano, Yemen e Siria.
Il Parlamento iraniano applaude Ali Khamenei, la guida suprema. È il primo attacco diretto dell’Iran contro Israele. Un attacco da parte di un paese che sta costruendo l’arma nucleare, nonostante i controlli dell’Agenzia atomica internazionale e i ripetuti assalti e boicottaggi di Israele ai siti di Teheran dove si arricchisce l’uranio per scopi bellici e l’uccisione di scienziati che hanno preso parte al progetto.
Secondo l’intelligence americana, le capacità dei siti di sviluppare l’atomica sono arrivate al 60 per cento del necessario. Troppo: risuona come una minaccia diretta all’esistenza stessa di Israele.
Il peggio non è ancora venuto
Non a caso, l’Iran ha chiamato l’attacco “promessa vera”: Teheran aveva promesso una risposta durissima al raid israeliano del primo aprile contro la sede diplomatica iraniana a Damasco, in cui sono stati uccisi sette guardiani della Rivoluzione, e tra loro il generale Reza Zahedi.
“Promessa vera” ha fatto temere il peggio a molti israeliani. «Siamo stati tutta la notte con il fiato sospeso», dice Noa, una madre di famiglia di Gerusalemme, due figli maggiorenni nell’esercito, uno più piccolo con lei barricato per ore nel rifugio, con scorte di acqua e batterie cariche per far funzionare i cellulari in caso di interruzione di corrente. «Come nel 1991, durante la Prima guerra del Golfo, quando ci minacciavano dall’Iraq i missili di Saddam. Ora si vive in uno stato di tensione continua dal 7 ottobre, sempre temendo il peggio. Non ci sentiamo mai sicuri».
Ma il peggio non è venuto. Questa volta Israele ha garantito la sicurezza dei suoi cittadini. Anche lo Stato ebraico canta vittoria, recupera solidarietà internazionale, si fermano le proteste interne contro Benjamin Netanyahu e per un giorno passano in secondo piano la guerra di Gaza e gli scontri quotidiani in Cisgiordania. L’azione iraniana ha dato conforto alla tesi che vede in Teheran il vero pericolo alla pace, non solo in Medio Oriente.
Per Israele l’Iran dimostra di essere la “testa del serpente” del terrorismo fondamentalista islamico sciita. Con i suoi satelliti: Hezbollah in Libano e gli Houthi nello Yemen.
Netanyahu ascolterà Biden?
Per l’Iran Israele non esiste, è solo “l’entità sionista”: è il “Piccolo Satana” (il “Grande Satana” sono gli Usa). Khamanei lo ha detto ad attacco in corso: «Tutti i paesi che aiuteranno Israele saranno puniti» (Il riferimento è chiaro: la presenza militare americana nella regione è fortissima, ogni anno gli Stati Uniti finanziano Israele con 3,8 miliardi di dollari in aiuti militari). Le Guardie della Rivoluzione, i Pasdaran, esultano: «L’operazione “Promessa vera” è riuscita, abbiamo liquidato il conto, è una questione tra noi e Israele, gli Usa ne stiano fuori».
Da parte sua, il presidente Netanyahu ha parlato alla nazione: «Non finisce qui – ha detto – siamo pronti, abbiamo alleati, risponderemo e sappiamo difenderci». Si dice che, riunendo il gabinetto di guerra, stia studiando le prossime mosse. Il presidente statunitense Joe Biden gli ha chiesto di non insistere nella rappresaglia: sarà ascoltato? Molti ne dubitano.
«Israele prepara un attacco definitivo ai siti nucleari?». È la domanda che è stata posta più volte dai giornalisti al portavoce militare dello Stato ebraico, Daniel Hagari, che ha fornito sempre la stessa la risposta: «L’esercito farà tutto quello che è necessario per proteggere la nostra gente».
Non c’è da essere ottimisti
Per ora resta una constatazione, che ogni conflitto in Medio Oriente raramente ha smentito: quando si minaccia una guerra, prima o poi guerra è.
Hamas ha mostrato per anni sui social quello che voleva fare, eppure la guardia di Israele si è allentata sul confine con la Striscia, fino al massacro del 7 ottobre.
L’Iran aveva promesso una risposta diretta contro Israele e la “Promessa vera” è stata mantenuta.
Nel mondo globale non esistono risposte limitate, e meno che mai “proporzionali”. Lo sanno i generali, fingono di non saperlo i politici. Lo sperimentano sulla loro pelle i milioni di profughi e rifugiati. L’illusione del wishful thinking, il “pensiero ottimista”, confonde desideri e prospettive reali.
L’inferno della guerra reale è lastricato dall’irrealistico ottimismo della propaganda, sempre più gonfia di debole sicumera, soprattutto alla vigilia degli appuntamenti elettorali. L’unanime e speculare canto di vittoria è finora solo un canto di minaccia. Di guerra.
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