Sui banchi di scuola mandi a memoria un po’ di idiom scelti fuori contesto, ma al momento giusto ti senti un idiot perché non ne ricordi uno, o dici cose improprie tipo: “Non mi raccapezzolo più…”. Ripeti meccanicamente due paginette di Civilization (Piccadilly Circus, che d’acchito lo scambi per Moira Orfei, e l’immancabile “gita a Brighton”) e credi di essere pronto per la conquista del mondo. Ti convincono con le vacanze a Londra; vai, non riesci nemmeno a prendere un bus (che è latino e si pronuncia con la “u”) e ti autorimpatri per disperazione. In tutti i casi, balbettii e smozzichi a parte, l’inglese, ’sto benedetto inglese, non lo sai.
Cioè, parliamoci chiaro. Non è che impararlo sia una questione di vita o di morte. Ma perché lasciare tutto in mano a quelli che “il Mister”, quelli che “ti forwardo la mail”, quelli che “il clöb” e quelli che “il Chairman”? Al liceo si narrava di quel tale che non aveva studiato e che nel compito in classe pensò di ovviare usando il magico vocabolario, sola scriptura. E che tradusse “il treno si ferma” con un megalattico “the train yes military service”…
Libri. E uomini che li hanno scritti
Un giorno presi un libro. E lo lessi. La prima volta capìi un po’ poco, ma mi ci affezionai tanto (al testo, all’autore, al suo scrivere e alla sua lingua) da tornare a spenderci sopra altre giornate e altre nottate. Era Il signore degli Anelli. Avevo fatto il primo passo in un mondo più grande, dal quale non avevo alcuna intenzione di uscire di soppiatto. Dopo il capolavoro di John Ronald Reuel Tolkien fu una full immersion in Beowulf, Anglo-Saxon Chronicle, re Artù & dintorni; e T.S. Eliot, e C.S. Lewis, e G.K. Chesterton, e via così. Fino allo storico delle idee statunitense Russell Kirk, testimone per partecipazione del secolo XX, nato nel 1918 e morto nel 1994, che conobbi live nel 1989 grazie al saggista Mario Marcolla, un grande amico di Tempi.
Quando, davanti a un ottimo cannolo siciliano, mi sorpresi a conversare con Kirk delle qualità del tabacco da pipa tipo Virginia prediletto da Tolkien, di leggende scoto-irlandesi e di antigiacobinismo, decisi seduta stante di accettarne l’invito a passare un pò di tempo nel cuore del “Michigan dei taglialegna” per approfondire il suo pensiero e tutta una serie di tematiche storiche, politiche, filosofiche e letterarie che a quelle latitudini vengono definite “conservatorismo culturale e sociale”. Lui aveva fatto una cosa analoga decenni prima, familiarizzando con Eliot e diversi altri.
In una tiepida notte milanese, per un attimo (lungo una vita) l’espressione tout se tient prese carne e sangue. Mille cose trovavano casa, mille cose mi riportavano a casa. Non certo Ecce homo, ma sicuramente dissi: “Ecco il mio uomo”. Uomo, e non (solo) libro. Feci i bagagli e partii.
Un amico di Cosenza, sentito che andavo a Lugano a intervistare Eddo Rigotti (vedi oltre), ha commentato: “Allora ci sentiamo fra qualche giorno…”. Aveva ragione Albert Einstein: tutto è relativo, soprattutto lo spazio. Anzitutto per l’esperienza che di esso hai, per la visione (quasi fisica) del mondo che ti definisce, per la misura della realtà che ti possiede. L’unica duttilità, l’unica docilità che non è nichilistico relativismo. Una lingua nasce e si comprende così. Il resto è cattiva retorica (perché, da Cicerone a Richard M. Weaver sudista doc, ce n’è anche una buona, ottima).
Un “tour operator” alternativo
Un consiglio. Non fidatevi delle agenzie di viaggio che vi propongono il viaggio coast-to-coast (diciamo da New York a Los Angeles) e che poi mantengono la parola, facendovi sorvolare il Paese da un estremo all’altro. In mezzo c’è l’America, ma voi non lo sospettate nemmeno. Fra le due coste, geograficamente tondeggianti, c’è un’America fra parentesi (sogno da tempo di scrivere un libro intitolato così…). La cosa migliore è seguire invece una linea spezzata.
Partenza da Halifax, nella canadese Nuova Scozia (che in inglese si chiama, alla latina, Nova Scotia, pronunciato “nòva scòscia”), e poi giù attraverso la Nuova Inghilterra, quintessenza dello spirito yankee, ma migliore della cosmopoli newyorkese.
Quindi rotta verso la contea di Lancaster, Pennsylvania meridionale, che sembra un angolo di Ottocento. A questo punto, ovest o sud. Nel primo caso, si ripercorre il cammino degli amish, che dal territorio della prima totale libertà di culto voluto dal ricco quacchero inglese William Penn giunsero in Michigan. Probabilmente passarono anche per il paesello di Tecmuseh, dal nome del noto capo indiano shawnee orginario di quell’Ohio che, costeggiando la sponda meridionale del grande lago Erie, è inevitabile attraversare.
Dopo il Michigan, comincia il Midwest e poi c’è il West, e la storia diventa leggenda o viceversa. (Verso nord e nord-ovest, Mackinac Island sul lago Michigan è un gioiellino dove si gira solo a piedi, cavallo, bicicletta o calesse; e, dopo il biondo Illinois estivo, d’inverno su nel Wisconsin gli orsi fanno capolino alla porta di servizio).
Con la barra a sud, invece, si giunge in un attimo nel minuscolo Delaware (che geograficamente è una fetta squadrata dalla Pennsylvania), dove lussureggiano i giardini voluti da E.I. Dupont de Nemours, famoso chimico statunitense che in questo Stato avviò una fabbrica di polvere da sparo all’inizio del secolo XIX e che poi fece i soldi con la General Motors, il petrolio, il carbone, i polimeri e l’agricoltura. Nei pressi di Wilmington scorre il fiume Brandywine, come il Brandivino di Tolkien; e, fra i boschi che lo abbracciano, sorge la bella palazzina old fashion dell’Intercollegiate Studies Institute. Diretto da T. Kenneth Cribb Jr., già consigliere di Ronald Reagan agl’Interni, è una delle fondazioni educative private più ramificate (soprattutto fra gli studenti) e importanti per conoscere l’“altra America”. Attraverso il suo braccio editoriale ISI Books, E. Christian Kopff — filologo e classicista dell’Università del Colorado a Boulder — nel 1999 ha pubblicato The Devil Knows Latin: Why America Needs the Classical Tradition. Sostenendo che senza i lasciti latini l’inglese non è parlabile.
Dopo il Delaware è subito Virginia, non prima però di aver attraversato le colline del Maryland, magari nei dintorni di Hagerstown, Sharpsburg e del parco storico della battaglia di Antietam Creek, che il 17 settembre 1862 lasciò sul terreno circa 23.000 fra morti e feriti. In Virginia andate dove volete. I Padri pellegrini avrebbero dovuto attraccare qui, ma — non si è ancora capito se per errore o per sfuggire al giogo della Corona londinese — presero terra nel Massachusetts. È un concentrato di bellezza, storia e umanità che prosegue nel North e nel South Carolina, e in Georgia. In Florida andateci solo se promettete di evitare Miami Beach, Tampa Bay, il mito dell’“Eden incontaminato”, Disneyland e i resort per ricchi pensionati stufi di vivere da borghesi annoiati e borghesi stufi di annoiarsi da ricchi pensionati. Magari andate invece a St. Augustine, la più antica città degli Stati Uniti, fondata il 28 agosto 1565, giorno di sant’Agostino, dallo spagnolo Don Pedro Menendez de Aviles, cioè 55 anni prima dell’arrivo dei puritani a Plymouth Rock e 42 prima della fondazione di Jonestown, in Virginia (il primo insediamento stabile britannico in America Settentrionale, creato dal capitano di ventura John Smith, poi marito della principessa algonchina Pocahontas e già matamoros nel 1600 quando, con le truppe asburgiche, combatté i turchi). Nel Tennessee visitate Sewanee, sede della University of the South (non manca chi lo definisce il miglior ateneo statunitense), luogo in cui dal 1892 si edita il glorioso periodico letterario The Sewanee Review.
La Conquista del West
Da est a ovest, seguendo le carovane dei pionieri, la carta geografica degli States decolora progressivamente il verde intenso della Costa orientale per lasciare spazio, dopo il bruno degli Appalacchi, a un verdino più tenue a nord-ovest e nelle grandi pianure centrali (il verdone resiste ancora per tutto il profondo Sud ex-Confederato fino alla linea Dallas-San Antonio-Laredo in Texas). Poi tutto si fa pagliericcio, ocra e cuoio per via dei deserti, e marrone in ragione di rilievi e abissi (Montagne Rocciose, canyon e altopiani vari) di New Mexico, Arizona, Colorado, Wyoming, Montana, Idaho, Utah, Nevada, Oregon e Washington (qui evitate Seattle, il suo “popolo” artificiale, i cantieri della sua Boeing e la sua musica grunge). Oltre la Sierra Nevada, la carta torna una pelle di leopardo fra verdone e giallino. Ossia, girate a zonzo e ad libitum, ma la cosa migliore è farla a zig-zag dentro e fuori toccando i luoghi più anonimi, oppure (che è lo stesso, uguale e contrario) quelli evocatori di suggestioni. Elk City, El Paso e Abilene in Texas; Roswell, Albuquerque e Santa Fe in New Mexico; Tucson e Tombstone in Arizona; Durango e Fort Collins in Colorado; Laramie in Wyoming (dove c’è l’Università) e Havre in Montana. Secondo una pubblicità promozionale, se attraversate le great plain all’imbrunire, potete scorgere i fantasmi dei soldati dell’Unione e della Confederazione che vagano per i campi di battaglia del Kansas.
Se proprio dovete, in California procurate almeno di evitare l’«onda gay» e visitate Whittier, città quacchera famosa per aver dato i natali al quacchero Richard M. Nixon, il 9 gennaio 1913. Oppure ripercorrete El Camino Real, che collega come un filo di perle le 21 misión da San Diego in Baja California fino a poco sopra San Francisco, distanti un giorno di cammino l’una dall’altra. Grosso modo il percorso della US-101. Un bel giorno potreste pure saltare su un omnibus color lamiera della Greyhound — quelli che anche nuovi sembrano American Graffiti — per girare gli Stati del profondo Sud e del Midwest — universi a sé —, e magari farlo assieme a qualche timido e riservato mennonita, cugino “modernista” degli amish a cui è permesso questo mezzo di trasporto. Per il Sud, il centralismo e lo statalismo sono anatema, e il Midwest è la culla del cosiddetto “isolazionismo”. Il secondo dicono conservasse fino a pochi anni fa la parlata americana più pura, il primo ha un accento lento, sbiascicato, inconfondibile. Dentro l’America, di John Gunther (trad. it. Bompiani, Milano 1951), è un libro pubblicato eoni fa, ma due più due fa quattro per tutta l’eternità. Me lo prestò Marcolla. Resta un vademecum nordamericano straordinario (letteralmente: “portami con te ovunque tu vada”), Stato per Stato per settecentosessanta pagine. Ci sono un milione (nel senso in cui lo intendeva Marco Polo) di altri posti anglofoni imperdibili, in Usa e non solo. Scopriteli. Io l’ho fatto.
Forme (aristotelicamente sostanziali) della mente
L’inglese non è una lingua bastarda. È una lingua imbastardita. Come tutte, ma più di altre. E di fatto, anche se non di principio, è il nuovo latino.
La storia della lingua inglese ricorda (ovvio) una discendenza dal ceppo linguistico germanico che l’atavico astio fra britannici e tedeschi odierni rende novità quasi assoluta, e una penetrazione francese che la grandeur dell’uno irriducibile allo snobismo dell’altro lasciano trapelare a stento.
Ma il bello è che, per effetto di questa sovrapposizione nel tempo trasformatasi in un’ibridazione, la lingua inglese attuale raddoppia la propria attenzione alla realtà. Cioè un numero altissimo di termini inglesi ha doppia dizione, una di radice anglosassone, l’altra franco-normanno-latina. Ma questa doppia dizione non è una mera ridondanza sovrabbondonante. I due lemmi accolti dall’inglese si sono caricati di significati specifici, esito di una storia, tanto da risultare sinonimi del medesimo concetto solo in minima parte. L’inglese per “libertà” è freedom (anglosassone) se indica il concetto, l’idea universale; ma liberty se significa la libertas concreta, fattuale, reale. Tant’è che liberty si pluralizza in liberties, ma freedom no. La Casa delle Libertà, in inglese, farebbe riferimento alle liberties. Poche lingue si permettono oggi questo lusso. Letture consigliabili? Potrei dire un certo John Steinbeck, William Faulkner, Flannery O’Connor o una certa Kathleen Norris. Invece scelgo Andrew Nelson Lytle (1902-1995), romanziere, critico letterario, storico e agricoltore che per anni ha vissuto in una capanna di tronchi costruita con le sue stesse mani e che un tempo animava il sodalizio degli “agrari sudisti” (in contatto con i distributivisti britannici Hilaire Belloc, G.K. Chesterton e Vincent McNabb o.p.). E dico A Wake for the Living: A Family Chronicle (1975). È la storia del Sud narrata attraverso il racconto della famiglia dell’autore, dal cuore del profondo Tennessee. Poi At the Moon’s Inn (1941), cioè il racconto di Hernando De Soto alla scoperta del Nuovo Mondo. Infine, Kristin: A Reading (1992), un’eccezionale lettura della storia della “figlia di Lavrans”, capolavoro degli anni Venti del Premio Nobel norvegese Sigrid Undset.
Morale della favola? «Non ho che un lume dal quale i miei passi sono guidati, e quello è il lume dell’esperienza. Non so di alcun modo per giudicare il futuro eccetto che mediante il passato». Nel 1775 lo affermò Patrick Henry, “rivoluzionario” americano fra i più ardenti e arditi, poi primo governatore della Virginia.