Il presidente Raisi è morto. Il regime islamico in Iran non cambia
L’unica certezza sul tragico incidente che domenica pomeriggio ha provocato la morte del presidente iraniano, Ebrahim Raisi, è che a Teheran non cambierà nulla. Non era l’ex presidente della Corte suprema ad avere in mano il potere nella Repubblica islamica, non era amato dalla popolazione l’ultraconservatore “eletto” nel 2021 e le sue speranze di succedere all’ayatollah Ali Khamenei, anziano e malato da anni, si erano già affievolite.
Per questo, come ha ben dichiarato il politologo Ian Bremmer al Corriere, «la portata della morte di Raisi è minore di quanto ci si potrebbe aspettare. In Iran il potere non è nelle mani del presidente, ma in quelle del leader supremo e del Consiglio dei guardiani della Costituzione. Perciò la sua scomparsa non [avrà] conseguenze significative sulla stabilità del governo».
La tragica morte di Raisi in Iran
L’elicottero Bell-412 che domenica doveva riportare il presidente a Tabriz, nel nord-ovest dell’Iran, dopo una visita in Azerbaigian si è schiantato a terra vicino a Jolfa a causa del maltempo. Insieme a Raisi, sono morti il ministro degli Esteri, Hossein Amir-Abdollahian, il governatore della provincia dell’Azerbaigian orientale Malek Rahmati, il leader religioso di Tabriz, Mohammad Ali al-Hashem, e due guardie del corpo.
Ieri Teheran ha indetto cinque giorni di lutto nazionale per la morte di Raisi, mentre il posto di presidente è stato assunto ad interim dal vice Mohammed Mukhber. Entro 50 giorni, verranno indette nuove elezioni.
Raisi non era amato dagli iraniani
In pochi rimpiangeranno in Iran la morte di Raisi, uomo dedito alla rivoluzione islamica di Khomeini, che fece rapidamente carriera passando da procuratore generale della città di Karaj a viceprocuratore di Teheran nella seconda metà degli anni ’80.
È in questo periodo che il presidente legò il suo nome a una cerchia ristretta, conosciuta come “Commissione della morte”, che interrogava i prigionieri sulla loro affiliazione politica o religiosa e li condannava a morte in pochi minuti, senza prove e senza avvocati. Raisi si guadagnò la stima del regime dando seguito a una fatwa di Khomeini e rendendosi responsabile insieme ad altri tre giudici dell’esecuzione di massa di circa 5.000 oppositori degli ayatollah nel 1988.
Raisi sarà anche ricordato per la ferocia con cui ha fatto reprimere le proteste dei giovani, che a partire dall’assassinio di Mahsa Amini per un velo portato male, il 16 settembre 2022, hanno manifestato contro il regime islamico per chiedere libertà, dignità e giustizia.
Le prossime elezioni non saranno libere
In molti si augurano che il posto di Raisi possa essere preso da un politico migliore di lui, ma le recenti esperienze elettorali lasciano poche speranze. Come spesso accade in Iran, l’ultraconservatore venne eletto nel 2021 dopo che il Consiglio dei guardiani, il gruppo di religiosi ed esperti che esamina le candidature alle elezioni, escluse dalla corsa tutti i potenziali rivali, riducendo il numero di candidati da 600 a sette.
A dimostrazione della disillusione degli iraniani, solo il 48 per cento degli aventi diritto, la percentuale più bassa dal 1979, si recò alle urne il 18 giugno e il 15 per cento di questi annullò la scheda in segno di protesta. Niente fa pensare che le prossime elezioni saranno libere, che il nuovo presidente sarà davvero eletto democraticamente e che sarà una figura diversa da un fedelissimo del regime.
L’Iran teme l’accordo tra Usa e sauditi
La morte di Raisi arriva in un momento estremamente delicato per l’Iran. Il paese – sponsor di Hamas, Hezbollah e Houthi – sta cercando di destabilizzare il Medio Oriente e ha appena rischiato di entrare in guerra aperta con Israele. Alleato di Russia e Cina, il regime islamico condivide la posizione secondo cui l’ordine mondiale guidato dagli Stati Uniti deve essere sovvertito una volta per tutte e sostituito da un ordine multipolare.
Ma il pericolo più grande per Teheran è quello che rivela la Cbs: l’arcinemico saudita sarebbe a un passo dalla firma di un accordo con gli Stati Uniti. Riassume Repubblica: «L’intesa si basa su tre punti: primo, le garanzie di sicurezza offerte dagli Usa all’Arabia Saudita per proteggerla dall’Iran, sul modello di quanto fa con gli alleati Nato, sommate all’accesso alla tecnologia per sviluppare l’energia nucleare a scopi civili; secondo, la normalizzazione dei rapporti con Israele; terzo, la ripresa del processo per creare lo Stato palestinese».
Il potere resta nelle mani di Khamenei
Maryam Rajavi, presidente del Consiglio nazionale della resistenza iraniana (Ncri), ha descritto la morte di Raisi come «un monumentale e irreparabile colpo strategico alla Guida Suprema Ali Khamenei», sostenendo che «scatenerà una serie di ripercussioni e crisi all’interno della tirannia teocratica, che sproneranno i giovani ribelli all’azione».
Quello di Rajavi è un auspicio più che una previsione. I meccanismi che regolano il potere in Iran restano gli stessi di prima e nonostante la tragica morte di Raisi, la guida di Khamenei non è in discussione. Appare vano, dunque, aspettarsi stravolgimenti. Di sicuro, contrariamente a quanto suggerito dall’ayatollah, in pochi in Iran «pregheranno per Raisi».
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