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Il traffico di influenze e la lezione che Grillo e i grillini non imparano mai

Auguriamo al garante del M5s di uscire indenne dall'inchiesta milanese basata su un reato assurdo. Ma speriamo anche che questo sia il contrappasso definitivo per il partito della gogna

Pietro Piccinini
19/01/2022 - 14:22
Giustizia
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Beppe Grillo

Dunque il padre di tutti gli “onesti”, Beppe Grillo, è di nuovo nei guai con la giustizia, questa volta nei panni dell’indagato, in coabitazione con l’armatore di Moby Vincenzo Onorato, per “traffico di influenze illecite”. Come noto, non è l’unica grana giudiziaria che pesa sul gobbo del comico spazzacorrotti (per un pratico e sintetico “casellario”, si veda per esempio questo articolo di Repubblica). Tuttavia l’indagine della procura di Milano regala al “garante” del Movimento 5 stelle e ai sui vecchi e attuali – sempre più timidi – sostenitori diverse lezioni da mandare a memoria. Vale la pena di metterle in fila così come emergono dai giornali di oggi.

Per i dettagli di cronaca dell’inchiesta, basta e avanza il resoconto di Luigi Ferrarella per il Corriere della Sera:

«Da quanto traspare infatti dai decreti di perquisizione, la società Beppe Grillo srl, di cui il comico è socio unico e legale rappresentante, ha percepito da Moby spa 120.000 euro all’anno nel 2018 e 2019 “apparentemente per un accordo di partnership” finalizzato alla diffusione sui canali digitali legati al blog Beppegrillo.it di “contenuti redazionali” (almeno uno al mese) promozionali del marchio Moby.

Sempre dal 2018, e per tre anni, la Moby spa ha sottoscritto anche un contratto con la Casaleggio Associati srl del figlio Davide del cofondatore del M5s Gianroberto, che i pm – senza allo stato indagarlo – qualificano “figura contigua al M5s in quanto all’epoca dei fatti gestiva la piattaforma digitale Rousseau”: 600.000 euro annui per la campagna “Io navigo italiano”, un pallino di Onorato per “sensibilizzare l’opinione pubblica e gli stakeholders alla tematica della limitazione dei benefici fiscali alle sole navi che imbarchino personale italiano e comunitario”.

Solo che – e qui sta la correlazione che i pm devono dimostrare per contestare il traffico di influenze illecite – nello stesso periodo “Grillo ha ricevuto da Onorato richieste di interventi in favore di Moby spa”, e per i pm “le ha veicolate a parlamentari in carica appartenenti al Movimento” da lui fondato, “trasferendo quindi al privato le risposte della parte politica o i contatti diretti con quest’ultima”. Un triangolo di cui gli inquirenti milanesi avrebbero già tracce, acquisite a Firenze in alcune chat di Onorato nell’inchiesta fiorentina dal 2019 sulla Fondazione Open di Matteo Renzi».

Quanto alle accuse ipotizzate dagli inquirenti nei confronti di Beppe Grillo può bastare così, perché a differenza di altre testate Tempi è garantista per davvero e non si diverte a partecipare ai processi in piazza, nemmeno quando la gogna tocca a chi se la cerca. Qualcosa di simile la scrivemmo già quando esplose il caso di Ciro Grillo e papà Beppe sbroccò come un disonesto qualsiasi.

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Auguriamo quindi a Grillo di uscire da questa indagine non diciamo “da innocente”, ma quanto meno senza condanne, come del resto è già capitato in passato a una infinita sfilza di politici presunti corrotti (poi scagionati) su cui i cinquestelle non hanno mai esitato un secondo ad accanirsi pubblicamente. Nello stesso tempo speriamo però che il contrappasso funzioni, mettendo fine una volta per tutte alla favoletta pericolosa della “diversità” grillina, come scrive Alessandro Sallusti in un perfetto editoriale per Libero, dopo aver ricordato quante volte la sbandierata diversità è stata sbugiardata:

«Mi auguro che in questo paese non ci sia più nessuno a credere alle baggianate di questi scappati di casa (anche sui soldi che avevano promesso di restituire si potrebbe discutere a lungo) che hanno avvelenato i pozzi della politica e fatto perdere all’Italia anni di crescita con i loro inutili governi del popolo».

A proposito della superiorità proclamata da Beppe Grillo e compagnia forcaiola, sempre nell’ambito del contrappasso va segnalato quanto osserva un commento del Foglio:

«Se c’è una “questione morale”, o quantomeno un disvelamento dell’ipocrisia tipica di tanti moralisti e giustizialisti, che è emersa a prescindere dagli esiti giudiziari riguarda il “blogger” più che il politico.

Prima di fondare il partito, Beppe Grillo è diventato popolare costruendosi l’immagine di voce “indipendente”, il suo blog veniva presentato come l’unico organo d’informazione libero in un sistema dei media corrotto e asservito ai vari interessi politici ed economici. Per anni Grillo ha alimentato la sua fama definendo i giornalisti “pennivendoli”, paragonandoli alle prostitute. Ai cronisti che cercavano di porgli qualche domanda, per evitare di rispondere, distribuiva soldi falsi: “Ora fate come dico io”. Sulla retorica della stampa “prezzolata” ha edificato gran parte del suo successo personale e politico. E invece si è scoperto che era lui, Beppe Grillo, a farsi pagare ben 120 mila euro l’anno per due anni da Moby, società dell’armatore Vincenzo Onorato, per pubblicare “contenuti redazionali” sul suo blog e sui suoi canali e forse, questa è l’accusa, anche per influenzare il M5s a favore di Moby».

Di nuovo. Bisogna augurare a Grillo di uscire indenne da questa vicenda, almeno dal punto di vista strettamente penale. Ma è improbabile che il comico genovese se la caverà senza gravi perdite a livello di immagine, stress, spese giudiziarie, eccetera. E non da ultimo a rovinargli la vita saranno il demonio mediatico-giudiziario che lui stesso ha contribuito ad alimentare per anni e ancor più l’incredibile reato di “traffico di influenze illecite”, del quale si ritrova accusato. Fattispecie talmente fumosa a indefinita da essere potenzialmente devastante per chiunque (e se alla fine difficilmente è galera, resta comunque il calvario, come insegna il magistrato Carlo Nordio).

E sapete qual è il colmo? Lasciamo rispondere ancora il Foglio:

«Il colmo è sapere che con l’approvazione nel 2019 della “legge spazzacorrotti”, voluta dal guardasigilli Alfonso Bonafede e festeggiata dai grillini con lo spumante in piazza, il reato di traffico di influenze illecite, anziché essere regolamentato con maggiore precisione, è divenuto – a detta dei giuristi – persino più indeterminato e fumoso, dunque ancor più pericoloso, vista l’assenza di una normativa che regolamenti l’attività di mediazione politica. In altre parole, stavolta più che mai, Grillo è vittima del suo stesso giustizialismo».

La stessa cosa ricorda oggi in un tweet il deputato di Azione Enrico Costa:

«Grillo dovrebbe cacciare a calci nel sedere quei fanatici del suo partito che, durante l’esame della spazzacorrotti, col sangue agli occhi, hanno fatto a pezzi le nostre obiezioni sul reato di traffico di influenze. Ed hanno anche aumentato la pena fissandola a 4 anni e 6 mesi».

Grillo dovrebbe cacciare a calci nel sedere quei fanatici del suo partito che, durante l’esame della spazzacorrotti, col sangue agli occhi, hanno fatto a pezzi le nostre obiezioni sul reato di traffico di influenze. Ed hanno anche aumentato la pena fissandola a 4 anni e 6 mesi.

— Enrico Costa (@Enrico__Costa) January 19, 2022

Il motivo per cui questo vaghissimo reato andrebbe abolito lo spiega bene il già citato editoriale di Sallusti:

«Il reato ipotizzato è quello di “traffico di influenze”, una trappola introdotta dal partito dei giustizialisti nel 2012 (governo Monti, ministra della Giustizia Paola Severino) e per la verità stupidamente approvata anche da Forza Italia. È un’arma che i magistrati hanno usato e usano come una clava nelle loro scorribande sul terreno della politica, il più delle volte si tratta di un teorema: siccome qualcuno ti ha aiutato a fare politica se tu ricambi la gentilezza sei equiparato a un delinquente».

Insomma, alla luce di tutto ciò, il lungo elenco di conflitti di interesse di Grillo fatto da Jacopo Iacoboni per la Stampa potrebbe trasformarsi in altrettanti fascicoli giudiziari. Il capo d’accusa c’è: basta trovare il giusto pm. Capito “onesti”?

Del resto non c’è solo Sallusti a dubitare di questo reato. Lo fa anche, all’estremo opposto dello spettro ideologico, Repubblica con Michele Serra:

«Il nome stesso del reato, “traffico di influenze illecite”, lascia intendere la zona d’ombra sulla quale la Procura di Milano indaga. Si tratta di quel vischioso viluppo di rapporti tra economia, politica e media che oscilla tra il lobbismo, il vassallaggio, la compravendita di favori e simpatie. Stabilire dove è il reato, dove la mollezza etica, non è mai facile».

È lecito comunque dubitare che in tema di giustizia Grillo e i suoi grillini ci sentiranno mai, dall’orecchio del buon senso. E questo nonostante l’ulteriore elemento paradossale dell’attuale vicenda sottolineato dallo stesso Serra: ossia il fatto che l’indagine sul comico fondatore del M5s nasce proprio dall’inchiesta sulla fondazione Open di Renzi, al solito ottusamente strumentalizzata dai pentastellati malgrado i numerosi dubbi sollevati da molti (compreso Tempi) sull’ipotesi di accusa. Ancora Serra:

«Per utile paradosso, lo strale destinato a Grillo rimbalza anche da un’altra inchiesta, quella della Procura di Firenze sulla fondazione Open di Matteo Renzi. Questo per dire che non conviene mai imputare agli altri ciò che potrebbe essere imputato a te stesso. […]

È puro cinismo compiacersi del fallimento dei tentativi di moralizzazione. Ma è pura stupidità non leggere, nel disfacimento strutturale del grillismo, la meritata sconfitta dell’improvvisazione e della presunzione. Che alla politica non fanno meno danni dell’immoralità»

Il partito dei manettari ascolti almeno la lezione di Repubblica, che di questioni morali e di presunzione se ne intende.

Foto Ansa

Tags: Beppe GrillogiustizialismomagistraturaMovimento 5 Stellespazzacorrottitraffico di influenze
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