Il test SLG (o del perché giocare ancora a pallone mentre viene l’Apocalisse)

Di Fabrice Hadjadj
11 Novembre 2020
Si può continuare a divertirsi con i figli, studiare la metafisica, scrivere poesie quando la gente muore di Covid e ci aspetta una crisi peggiore della Grande Depressione? Sì, il cristiano può. Deve
Partita a calcio in famiglia in un parco durante il lockdown per il coronavirus

Articolo tratto dal numero di novembre 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

Sotto il titolo “Il test SLG (Apocalisse e impegno)”, Fabrice Hadjadj ha tenuto un saluto agli studenti per il nuovo anno accademico dell’Istituto Philanthropos di Friburgo di cui è direttore. Proponiamo brani selezionati del suo intervento.

Se stamattina posso darvi il benvenuto, è perché ancora una volta siamo sfuggiti alla fine del mondo. Sembrava fosse la volta buona grazie al Covid, (…) ma non bisogna scommettere troppo su un grande rimbalzo della curva a campana. La peste del XIV secolo appariva molto più promettente al riguardo, eppure è riuscita soltanto, secondo alcuni storici, a servire da trampolino al capitalismo moderno grazie al fatto che ha concentrato la ricchezza in meno mani e ha costretto a inventare macchinari come la pressa da stampa per supplire alla mancanza di manodopera.

Le grandi epidemie di vaiolo e di tifo del XVI secolo hanno permesso alla vecchia Europa di conquistare il Nuovo Mondo: Pizarro e Cortés sono riusciti a impadronirsi di vasti imperi con pochi uomini e tanti microbi. La “spagnola” ha fatto più morti della Prima Guerra mondiale, ma non ha impedito la Seconda. In poche parole, il flagello ha flagellato, come dice il suo nome, ma ancora una volta non ha annientato. Per consolarvi potete consultare Wikipedia e trovarci una lista di predizioni della fine del mondo. A dire il vero ce n’è una per ogni anno, basata sul passaggio di asteroidi, su calcoli numerologici e sul calendario Maya. (…)

Fine del mondo e fine dei tempi

Effettivamente la fine del mondo è difficile da organizzare. Supponete di disporre di un luogo che secondo i vostri computer, le vostre visioni o le informazioni ricevute dagli extraterrestri rappresenti un rifugio dal quale potrete assistere alla distruzione totale. Potrebbe essere il Pic de Bugarach nel dipartimento dell’Aude, o la collina di Bourguillon in Svizzera, dove la fonduta non cessa di ricordarci il ritorno di ogni forma allo stato liquido. Ebbene, mi spiace dirvelo ma tutti questi luoghi fanno ancora parte del mondo, il che significa che il mondo c’è ancora, e che non si tratta ancora della sua fine. 

La stessa cosa vale per la fine dei tempi. Alcuni propongono delle date, ma ogni datazione presuppone che il tempo prosegua. Quando voi dite: «È per il 21 maggio 2011», sapete che il 21 è prima del 22, e che il 24 avete ancora appuntamento col vostro dentista. Certo, è possibile che non ci sia più il 22 dopo il 21, ma bisognerebbe essere nonostante tutto presenti il 22 per poter constatare che la fine dei tempi ha avuto luogo il 21. In breve, lo avete capito ed è seccante, fine del mondo e fine dei tempi non possono aver luogo nel mondo e nel tempo. Non possono aver luogo se non dal punto di vista di una posizione assolutamente trascendente che nessuna agenda Google e nessun Gps possono situare.

È per questo che i pagani non ci credevano: per loro l’ordine del cosmo era perpetuo e immutabile. Il mondo poteva certamente passare attraverso dei cicli, ma la distruzione era sempre seguita da una rinascita, come l’inverno è seguito dalla primavera. Il che ci conduce alla seguente constatazione: per pensare la fine del mondo ci vuole una rivelazione che viene da fuori dal mondo, ci vuole una sapienza che è oltre «la sapienza del mondo» (1Co 1,21), ci vuole – il che corrisponde alla prima parola dell’ultimo libro della Bibbia – una Apocalisse

La «rivelazione del mistero»

Questa parola greca non vuole dire catastrofe, per la quale il greco ha un’altra parola. Si traduce letteralmente come “svelamento” o “scoperta”. Naturalmente questo ha poco a che vedere con uno spogliarello. Nel linguaggio biblico questa scoperta non è operata da un uomo o da una donna, ma da Dio in persona, e dunque a partire da una posizione trascendente che non è a rigor di termini fuori dal mondo o prima del tempo (si tratterebbe ancora di una concezione spazio-temporale), ma che è l’origine del mondo e del tempo, ciò che i teologi chiamano l’Immenso e l’Eterno.

Così l’Apocalisse, prima di essere una relazione con la Fine, è una relazione con l’Infinito o, secondo le parole di san Paolo ai Romani, è una «rivelazione del mistero avvolto nel silenzio per secoli eterni» (Rm 16,25). È questa rivelazione che manifesta in modo secondario la Fine, come il sole abbagliante manifesta che le nostre piccole lampade elettriche sono ancora dal lato della notte. Il giudizio di Dio marca la finitezza dei nostri giudizi umani, e ci invita pertanto all’umiltà di non giudicare frettolosamente e persino di accogliere la nostra zia Agata come una grazia o come un rinvio.

Forse qualcuno tra voi non capisce niente di ciò che vi sto dicendo. Li rassicuro: neppure io. D’altra parte abbiamo tutto un anno accademico per entrare un po’ di più nell’incomprensibile.

Ciò che vorrei fare qui, è sottomettervi a un test, il test SLG. State tranquilli, non stiamo per fare di voi le cavie di un esperimento. Al contrario, questo test è il solo modo di non essere una cavia, e di entrare in una vera libertà. Del resto questo test ve l’hanno già fatto fare, e no, non consiste nell’introdurre una cannula nella narice sinistra per uno striscio nasofaringeo. Il nostro test si fa con l’orecchio, con la parola. E quasi ogni anno si incontra un prete poco ispirato e molto disposto a infliggerci questo test nella sua omelia domenicale. Niente è più banale, dunque. E per questa stessa ragione, niente è più nascosto sotto la routine.

San Luigi Gonzaga secondo Péguy

Il test SLG rimanda a un celebre aneddoto riguardante san Luigi Gonzaga. (…) Per la vostra formazione letteraria, ve lo racconto nella versione che ne dà Charles Péguy il 31 dicembre 1905, quando augura non il benvenuto ma qualcosa di simile, e cioè il buon anno, agli abbonati dei suoi Cahiers de la Quinzaine.

«Luigi Gonzaga, si racconta che quando san Luigi Gonzaga era novizio, i suoi colleghi o compagni, non so come si dica, si divertirono – mettiamo che stavano giocando a palla avvelenata – a fare questa domanda, che doveva essere uno scherzo tradizionale del seminario. Posero dunque all’improvviso questa domanda, che tiene il posto, se si vuole, di un gioco di società, ma che è, anche quando non se ne abbia l’intenzione, un interrogativo formidabile. Essi dissero fra di loro, all’improvviso, si domandarono l’un l’altro: “Se noi apprendessimo improvvisamente, in questo stesso momento, che il Giudizio universale avrà luogo fra venticinque minuti, che cosa fareste?”. Forse non pronunciavano proprio queste parole, senza dubbio parlavano in modo più simile a quello dei monaci e dei cattolici, ma infine il senso era lo stesso. Allora alcuni immaginavano esercizi spirituali, altri immaginavano preghiere, altri ancora meditazioni, tutti correvano a confessarsi, alcuni si raccomandavano a Nostra Signora, altri si raccomandavano al loro santo patrono. San Luigi Gonzaga disse: “Io continuerei a giocare a palla avvelenata”». 

(…) Péguy racconta questa storia per confermare un’azione che ha compiuto, un’azione che a prima vista sembra discutibile. Effettivamente ha appena pubblicato delle poesie, semplici poesie, allorché una grande guerra è imminente e ci sono migliaia di cose più importanti che richiedono la nostra attenzione. Ci si può fermare a leggere poesie nell’ora della mobilitazione generale? Oggi si potrebbe dire: ci si può fermare a studiare la metafisica quando la gente muore di coronavirus e siamo alla vigilia di una crisi economica che sarà peggiore di quella della Grande Depressione? Ieri, riprendendo una famosa frase di Theodor Adorno, si sarebbe potuto dire: come si possono scrivere poesie dopo Auschwitz?

Charles Péguy ha l’audacia di affermare che se ne possono scrivere prima, dopo e anche durante. Che si può anche cercare di giocare a pallone ad Auschwitz, e che una partita di calcio davanti alle camere a gas sarebbe stata una testimonianza di vita e di semplicità che avrebbe senza dubbio sconcertato i nazisti, e toccato i più alti livelli di resistenza. (…)

La venuta del bene in persona

Naturalmente un discepolo di SLG non è come un tifoso del PSG. Se continua a giocare a pallone, non è per divertirsi, non è perché ignora l’Apocalisse o il Giudizio di Dio. Al contrario, li ha già guardati bene in faccia e ci si è preparato. Ha già «il cuore saldo» (Salmo 56,8), ed è per questo che continua a giocare a pallone, con la lucidità di chi sa che questo pallone gli è dato come una grazia, e con coraggio; «questo coraggio», dice Péguy, «che non consiste né nell’ignorare né nel disprezzare – disprezzare, cioè non tener conto del prezzo, valutare male il prezzo – ma nel conoscere molto precisamente, e molto precisamente nel non aver paura e nel continuare molto precisamente». Tutto è in questo coraggio che consiste molto precisamente nell’essere umani, proprio mentre si sa molto precisamente che è l’epoca del virus, del cyborg, della bestia, del trans, del post e del pre-umano. Ed è questo coraggio che deve essere il vostro venendo qui.

Per dirlo in altro modo, la fine del mondo non è la fine, ma l’inizio dell’impegno cristiano e umano. Essa non è ciò che impedisce il benvenuto, ma è il benvenuto più forte perché è la venuta del bene in persona, proprio qui dove tutto va sempre peggio. L’apocalisse è il punto di partenza dell’apostolato e di un apostolato che non è di evasione, ma di incarnazione, dove il santo può giocare a pallone, aprire un libro, fabbricare un mobile, avere figli, condividere il pane e il vino anche sull’orlo dell’abisso.

Il test SLG si trova già in bocca a un maestro ebreo del primo secolo, rabbi Yohanan ben Zakkai, che lo formula come un consiglio: «Se il messia bussa alla tua porta mentre stai piantando un albero, non ti interrompere, continua il tuo lavoro: il messia aspetterà». La prova che sia un consiglio eccellente è data dal Vangelo. Col Vangelo, il messia ha bussato alla tua porta, è pure entrato, è qui. E che fa? Aspetta. Non siamo noi che attendiamo il messia, è lui che attende noi. Attende che chi pianta l’albero abbia finito il suo lavoro e che l’albero abbia finito di crescere e che l’esperto segatore l’abbia tagliato in pezzi, perché il messia si è fatto falegname. Pensateci bene: il Verbo di Dio è sulla terra e, anziché fare grandi miracoli e impartire grandi insegnamenti, per 30 anni fa della falegnameria, lavora come tutti. Ciò invita tutti a continuare a piantare alberi e a giocare a pallone, mentre lui è già qui, ma a farlo con un «cuore nuovo» e uno «spirito nuovo» (Ez 36,26).

I collassologi e «le cose di lassù»

C’è tuttavia un doppio piccolo ostacolo, per dirla con una litote. Da una parte, diversamente da san Luigi, noi non siamo in un seminario e non siamo per nulla dei santi; dall’altra, nessuno può sfuggire a questo test, ma a questo test nella forma molto materiale d’una crisi senza giudizio, di un’apocalisse senza regno, di una catastrofe senza rivelazione. Non siamo più nel tempo dell’ideologia del progresso. Ai nostri giorni si moltiplicano i “collassologi”. Ci annunciano che tutto probabilmente ben presto andrà a fondo. Tutto, beninteso, eccetto il loro discorso. La collassologia è un discorso che trionfa nel mezzo del disastro. La sua fine del mondo è debole; essa resta ancora progressista ma provando vergogna. Crede in un ordine migliore dopo una enorme purga demografica. Ciò che oggi travaglia le coscienze è molto più profondo. È l’idea di una fine del mondo forte, di una distruzione così totale che, per non pensarci, ci lanciamo sia nel fantasma del ritorno alla natura sia nel virtuale dell’intelligenza artificiale, sia nell’ipnosi del fondamentalismo religioso. (…) 

Perché impegnarmi nel mondo alla fine del mondo? O più semplicemente: che fare, infine, quando le grandi utopie politiche sono morte? È questo che domanda il test SLG al quale in questo momento siamo tutti sottoposti senza eccezione. Così gli uni evaderanno nello spiritualismo: niente pallone, niente poesia, solamente preghiera in ginocchio. Altri sprofonderanno nel nichilismo: niente pallone, niente poesia, ma dei piccoli giardini dell’Eden tecnologici, circondati da reticolati e torri di guardia, da dove si spara a vista su tutti i poveri che vorrebbero entrare. Altri ancora, sotto la copertura dell’ecologia, regrediranno verso il paganesimo: niente pallone, niente poesia, ma un fertilizzante per reinserirsi nel girone di madre natura, come se la natura avesse avuto la minima compassione per il diplodoco, e come se l’uomo non fosse anche un essere di cultura e di storia.

Per cosa dunque impegnarmi? È la nozione stessa di impegno nel mondo che occorre qui criticare. La retorica dell’impegno è assai diffusa, anche negli ambienti cattolici. La sua parola d’ordine è “impegnarsi totalmente”, “impegnarsi a fondo”, “impegnarsi senza riserve”, trovare “una professione che sia anche una vocazione”, essere “pienamente al proprio posto”, vivere “in coerenza con se stessi”, “vivere pienamente l’istante presente” e altre baggianate alla moda…

C’è da chiedersi come il cristiano possa essere così facilmente preda di questa retorica. In principio egli sa «cercare le cose di lassù» (Col 3,1); ora, chi guarda le cose dall’alto non può avere sempre il naso sul manubrio. Non è che sia privo di peso, ma ha i piedi sulla terra, anche quando il suolo viene meno. Aprendosi alla rivelazione, egli è nel mondo, ma in quanto inviato, a partire da ciò che non è del mondo. Dunque vive sempre con un certo scarto, un certo arretramento, un certo «disincanto», direbbe Sartre, una distanza contemplativa e quella che io chiamerei persino una ironia pratica.

Questo distacco gli impedisce tanto bene di sprofondare quanto di fuggire. Egli ascolta con una flemma divina gli appelli “alle armi!” e i “si salvi chi può!”, perché ascolta anzitutto l’appello “Ascolta, Israele”. A partire da questo, non cedendo né al conforto né al panico, egli può aprire dei passaggi nel mare, liberare dei ruscelli nel deserto, innalzare un’alba nelle tenebre, dare sapore a ciò che è insipido, in breve: essere ciò che voi siete, cioè «sale della terra» e «luce del mondo» (Mt 5,13-14).

L’importanza del distacco

Prima dell’impegno e del disimpegno c’è il distacco. Poiché voi avete osato venire a Philanthropos e dato che Luigi Gonzaga gioca a pallone, conviene parlare di distacco. Il distacco è ciò che produce l’apocalisse come rivelazione: ci fa vedere il mondo a partire da ciò che non è del mondo, e ci permette, grazie a questo scarto, di prenderci cura del mondo, persino di salvarlo, cioè di non perdercisi.

È per il fatto che Noè non è un animale come gli altri che può costruire un’arca per salvare gli altri animali puri e impuri. L’idea stessa di salvare la terra suppone un scarto per così dire celeste, come quello dell’elicottero incaricato del salvataggio in mare. Questo scarto non è allontanamento, né semplice misura sanitaria, ma distanza di rispetto e di servizio che riconosce l’altro come altro e gli prepara lo spazio dove la verità lo rende libero. 

Vorrei, per finire, commentare un passaggio difficile della prima lettera di san Paolo ai Corinti, che parla di questo scarto o ironia che è la sincerità del cristiano alla luce dell’Apocalisse. In questo passaggio Paolo risponde alla domanda che gli viene posta, cioè sapere se, alla fine dei tempi, convenga ancora sposarsi e avere figli – cioè giocare a pallone o correre a quattro zampe imitando il lupo, conseguenze inevitabili di ogni paternità carnale. Ora, la risposta dell’apostolo è che, se può essere meglio entrare nel celibato per il regno, per essere nel proprio corpo testimoni della speranza e delle nozze di Dio con l’umanità, non è meno bene entrare nel matrimonio e in tutto ciò che ne consegue. Ma questa cosa che fanno tutti per un motivo naturale e anche animale, il cristiano la compie ormai per un motivo soprannaturale, cioè che resta anche quando il mondo dovesse crollare.

Opere della carne con ragioni divine

L’apostolo ha queste parole che corrispondono molto precisamente alla posizione di san Luigi Gonzaga: «Che ciascun fratello rimanga davanti a Dio in quella condizione in cui era quando è stato chiamato» (1 Cor 7,24). Nulla cambia, dunque: l’appello sembra lasciarvi interamente nella stessa condizione – voi continuate a fare quello che fanno tutti gli uomini, mangiare, sposarsi, avere dei figli, costruire un tetto, cantare canzoni. Ma la motivazione profonda di tutto questo è radicalmente differente. Non è più una motivazione solamente mondana. Viene dalla fonte di tutte le cose, ed è dunque capace di rinfrescare ogni cosa, anche nel momento in cui tutto sembra dissolversi: 

«Questo vi dico, fratelli: il tempo ormai si è fatto breve; d’ora innanzi, quelli che hanno moglie vivano come se non l’avessero; coloro che piangono, come se non piangessero e quelli che godono come se non godessero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano del mondo, come se non ne usassero appieno: perché passa la scena di questo mondo!» (1 Co 7,29-31). 

(…) San Tommaso D’Aquino offre una chiave per accostarsi meglio al senso del “come se” di san Paolo. La fine dei tempi è questo tempo in cui «il popolo di Dio deve essere non tanto propagato dalla generazione secondo la carne quanto riunito dalla rigenerazione attraverso lo Spirito». Questo non significa, tuttavia, che la generazione secondo la carne deve essere abbandonata, ma che «le opere della carne» non si giustificano più dal basso, ma dall’alto, come «un servizio a Dio», e che sempre di più le cose più umane non si potranno più fare se non per ragioni divine.

È quello che noi vediamo oggi. Poiché la fine del mondo tormenta le coscienze, poiché il test SLG, nella sua forma più materiale, si impone a tutti gli uomini, non soltanto avviene che non si crede più in Dio, ma non si crede più ai sessi, non si crede più all’ordine della natura, non si crede più alla tradizione della cultura, si mettono alla pari l’uomo e la bestia e la macchina. Non si può neanche più dire che il fuoco brucia e che l’acqua bagna e che il nero non è bianco senza essere tacciati di fascista e essenzialista. Lo si può capire. Se tutto è fottuto, se il mondo crolla, perché avere ancora fiducia nella terra sotto i nostri piedi, perché, nel conto alla rovescia, non lasciare la briglia sciolta a tutti i nostri capricci?

Perché piantare ancora un albero di cui nessuno coglierà i frutti? Perché fare ancora figli quando bruciano le fornaci della disperazione? Perché giocare ancora a pallone, scrivere poesie e non mancare l’ora del tè, se è la fine dei tempi? Per nulla. Per un motivo che non è temporale, ma eterno. Perché l’uomo (Adamo) è qui per coltivare la terra (adamah). Perché noi siamo a immagine di Dio, che agisce per amore, per creazione, per rettitudine senza pretendere nulla in cambio. (…)

(Traduzione di Innocenza Laguri Lucini e Rodolfo Casadei)

Foto Ansa

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