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«Il mondo è cambiato. L’Italia scelga se fermarsi e condannarsi al declino o rinunciare ai privilegi e ripartire»

«Il governo non ha fatto riforme così audaci che abbiano prodotto già una svolta, come più volte annunciato». Intervista a Tobias Piller, corrispondente dall'Italia della Frankfurter Allgemeine Zeitung

Matteo Rigamonti
02/09/2014 - 10:58
Politica
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Per uscire dalla crisi l’Italia avrebbe bisogno di ripensare da capo quell’elefantiaca e multiforme azienda che è lo Stato italiano. Si potrebbe riassumere così il pensiero del tedesco Tobias Piller, corrispondente dall’Italia della Frankfurter Allgemeine Zeitung, secondo cui è sbagliato «prendersela con l’euro, la Bce o la Merkel». Semplicemente dovremmo fare quelle tante volte annunciate (ma mai realizzate) riforme che paesi come la Germania hanno fatto in tempi non sospetti, quando il «malato d’Europa», secondo i principali quotidiani, era proprio Berlino e la cancelliera Merkel era in procinto di salire al potere.

Non bastano lo sblocca Italia e la riforma della giustizia per ripartire?
La verità è che il governo non ha fatto riforme così audaci che abbiano prodotto già una svolta, come più volte annunciato. E non è con pacchetti di leggine dai nomi più o meno creativi, come “sblocca”, “cresci” oppure “salva” Italia, che si esce dalla crisi. Dal primo ministro Renzi, dopo le tante promesse e dichiarazioni, è legittimo aspettarsi qualcosa di più.

La riforma del processo civile non è un primo passo in questa direzione?
Per quello che ci è dato conoscere, sembrerebbe che il pacchetto miri a favorire soluzioni di compromesso su vecchi litigi nel campo della politica sulla giustizia. Nei processi, si cerca più mediazione. Ma a processo avviato, di fatto, non cambia nulla. Cosa si è fatto per creare un modello di valutazione del lavoro dei giudici e dei tribunali in termini di efficienza, qualità e velocità? Niente. Come pensate di tornare ad attrarre investitori dall’estero se, come ho visto fare coi miei occhi, gli avvocati stranieri, non appena sorgono le prime difficoltà, rimettono le carte in borsa e fanno marcia indietro, anzi, qualcuno nemmeno si presenta più? Anche il presidente della Bce Mario Draghi ha ricordato che tutto ciò vi costa l’un per cento del Pil ogni anno.

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Lo sblocca Italia, però, contiene misure importanti, come, per esempio, quelle che velocizzano la realizzazione di opere come la Tap, il gasdotto che collegherà la Puglia all’Azerbaigian, o favoriscono lo sfruttamento degli idrocarburi in Basilicata. Oppure il credito d’imposta per la banda ultralarga e le semplificazioni edilizie. Non le pare?
Si tratta di singoli provvedimenti in sé positivi e spero che siano utili per dare una spinta alla crescita. Quello che manca, però, è la consapevolezza che l’Italia, come pure il resto d’Europa, è in declino a causa della globalizzazione. Trent’anni fa chi voleva vendere automobili in Italia, le doveva produrre qui. Con tutti i privilegi dei paesi industriali dell’Occidente di allora, pazienza se doveva pagare gente che non lavorava. Ci si poteva permettere il lusso di un mercato del lavoro totalmente bloccato o di una burocrazia dai tempi infiniti. Ma il mondo è cambiato. I paesi una volta in via di sviluppo ora sono concorrenti, muniti di impianti nuovi, con mercati del lavoro e salari totalmente diversi, ed hanno un’alta produttività. Non si tratta solo della Cina, ma anche Brasile e Vietnam. L’Europa, anche l’Italia, sono costretti a scegliere se rimanere fermi e condannarsi a un inesorabile declino, o rinunciare ai privilegi acquisiti per aggiustare la competitività, anche se ciò è impopolare.

Quali privilegi e aggiustamenti?
È finito il tempo delle trattative sindacali stile “anni ’70” per difendere posizioni acquisite o per piccole rivendicazioni. Servono intese veloci, dove sindacati e aziende possano progettare le strategie insieme, per garantire la massima occupazione e competitività possibili; come vorrebbe fare la Fiat per tenere la produzione dei futuri modelli dell’Alfa Romeo in Italia. E c’è bisogno di un mercato del lavoro flessibile e di un sistema dell’istruzione che punti di più sulla formazione tecnica e professionale che non sui laureati in scienze della comunicazione. Serve, poi, ripensare la spesa pubblica italiana, tagliando dove possibile, perché oggi è pari al 51 per cento della ricchezza prodotta, mentre in Germania è il 45 per cento del Pil. A far crescere il Pil, infatti, è l’economia privata, e non la spesa aggiuntiva dello Stato. Senza contare che al momento, per Paesi indebitati, il momento è molto favorevole. L’Italia paga interessi bassi come mai per un debito record. Ma questa situazione non dura per sempre. Allora bisogna aver ridotto il peso del debito, prima che i mercati chiederanno di nuovo interessi alti, con un conto salato per chi ha accumulato alti debiti.

Tags: angela merkelbcedebito ItaliaGermaniaglobalizzazionemario draghiMatteo RenziPil
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