Il maestro ci parla ancora. Intervista a Pupi Avati
«Un giorno mi chiama un suo collega, Maurizio Caverzan, lo conosce? Ecco, mi dice: “C’è questo romanzino del papà di Vittorio ed Elisabetta Sgarbi, te lo mando”. E io inizio a sfogliarlo pigramente, non è che mi appassionino le vicende autobiografiche a meno che riguardino, chessò, Bach o Mozart. Invece mi cattura subito. C’era, nella vicenda rarissima di questo 93enne farmacista Nino e del suo matrimonio con “la Rina” durato 65 anni, una stupefacente affinità con la mia, sposato da 55. C’era la prima stagione della mia vita, c’era il “per sempre”». E sull’amore “per sempre” Pupi Avati ci ha fatto un film: Lei mi parla ancora, liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Giuseppe Sgarbi uscito nel 2014, un film scandalosamente anacronistico su un anziano che ama una sola, la stessa donna, Caterina Cavallini, per tutta la vita e continuerà ad amarla (e parlarle) anche dopo averla persa. Lo ha fatto nell’era del Covid, dei cinema chiusi, del trionfo del pericolante paradigma LoveIsLove e della “pena d’amore” rimpiazzata dalla “pena dei diritti d’amore”. E lo ha fatto “alla Avati”, guardando là dove non guarda più nessuno, sconvolgendo al solito le regole dei casting, disobbedendo a storie e attori alla moda, scegliendo volti che stupissero: Stefania Sandrelli, Alessandro Haber, Serena Grandi, Gioele Dix, Fabrizio Gifuni, Isabella Ragonese, soprattutto Renato Pozzetto nel ruolo del protagonista Giuseppe “Nino”… «Veramente io per Nino avevo scelto Massimo Boldi. C’era somiglianza fisica, l’idea che un Boldi drammatico desse scandalo, anche lui aveva perso la moglie».
E cosa è successo?
Che al momento della prova costumi arriva una di quelle proposte a cui Massimo non sa dire di no, Natale su Marte con Christian De Sica. Dobbiamo rimandare di sei mesi, ma come si fa? Siamo avanti con i lavori, gli altri attori già contrattualizzati. Allora mi viene in mente Pozzetto. Solo che ci eravamo mandati al diavolo dodici anni prima. Un litigio per un fraintendimento ma insomma. Lo faccio chiamare da mio fratello e Renato mi riceve a Milano. Mangiamo spaghetti mentre inizio a raccontargli la sceneggiatura. E lui si commuove. Aveva perso e amato sua moglie anche lui per tutta la vita, si era riconosciuto totalmente in Nino. Poi io dico che c’è stata anche un po’ di Provvidenza: chi mai avrebbe fatto da committente a un film sull’amore, interpretato da un comico ottantenne fuori dal cinema da anni? Alla fine a Sky si sono innamorati del progetto, prodotto poi da Bartlebyfilm e Vision. E hanno fatto bene.
Infatti a febbraio il suo film strappa un clamoroso successo di pubblico e critica. Quanto c’è di lei in questo film e in questo amore per sempre?
C’è la prima stagione della mia vita, dall’inizio degli anni Cinquanta fino a prima del Sessantotto. Allora si diceva “per sempre” impunemente, lo si diceva in continuazione all’amata, lo si prometteva davanti al prete, si infilava in ogni testo, poemetto o canzone. Era irrazionale, ma che bella la vita spalancata all’irrazionale. Dunque avevo in mano questo libro che parlava a me, di me, volevo trovare il modo di farlo mio. E lo trovo parlando con Elisabetta Sgarbi. Mi racconta come è nato il libro, vengo a sapere che esiste un ghost writer, uno scrittore che ha raccolto le memorie del padre. L’ho cercato, ci ho parlato e ho capito subito che sarebbe stato interessante raccontare questo incontro-scontro tra due uomini così diversi, Nino, così radicato a una concezione di vita e rapporti legata alla tradizione, e il ghost writer cinquantenne divorziato e cinico perfettamente coincidente col presente. Per il resto, per me era fondamentale affrontare il tema dell’assenza. E ci ho messo del mio. Morale: quando i miei figli hanno visto il film mi hanno detto: «Papà, ma Pozzetto sei tu». A me l’assenza è stata vivaddio risparmiata, Nino nel film, tenendo in vita il Rina che non c’è più, la supplica: «Non lasciarmi solo, non sono capace». È così: l’uomo non è capace di stare solo.
Nino dice anche: «Quando si è vecchi non ci si abbraccia più, è la cosa che non so perdonarmi, che mi manca di più». E ancora: «L’uomo mortale non ha che questo di immortale, il ricordo che porta e quello che lascia». È una dichiarazione d’amore a sua moglie? E lei, cosa ha detto guardandolo?
Che aveva riconosciuto le cose che ci siamo detti. La frase degli abbracci è sua. La seconda è di Cesare Pavese e ha a che fare con la mia cultura contadina, dove chi non c’è più viene perennemente ricordato, il suo nome continuamente pronunciato. Io ho una parete a casa, la chiamo la Via degli Angeli, ci ho appeso 150 ritratti incorniciandoli con cura di tutte le persone che voglio ricordare. Prego chiamandoli per nome, anche l’onomastica dei miei film è un modo per tenerli in vita: uso nomi di amici e parenti che ho perduto, che hanno avuto un significato per la mia storia.
Preoccupandosi per suo figlio che si era ammalato di Covid, lei ha detto: «Io ho una confidenza con la morte che non è delle generazioni educate all’immortalità e che mi è stata trasmessa dalla cultura contadina». Ma nella cultura contadina si spendeva la vita per qualcosa che si riteneva sacro, si sacrificava la vita. La conservazione della vita e la paura di perderla hanno preso il posto del sacro?
Sì, ci siamo sbarazzati del sacro: non c’è posto per la sacralità delle cose nella società dei consumi e del mercato che ti vuole consumatore immortale fino all’ultimo secondo. Per questo amo immensamente il Medio Evo, che lasciava spalancato il pertugio tra la vita e la morte, si passava dall’orizzonte del vivere al morire con disinvoltura. Anche il mondo dal quale provengo io era abitato dal sacro e dalla morte, li considerava parte della vita. «Attento, fai il buono o nonna viene a tirarti i piedi quando non ci sarà più», dicevano gli anziani ai nipoti nelle campagne. «Se mi succede “quella cosa” guardati attorno perché ti faccio un segno», mi diceva un amico dopo il terzo infarto: aveva una trattoria in provincia di Bologna, l’avevo infilato in qualche film. Beh, lui adesso non c’è più, il segno non l’ho ancora visto ma mi guardo attorno perché sono cresciuto con la “promessa” del segno tipica della cultura degli anni Cinquanta e Sessanta. Sarà per questo che non mi sono rassegnato all’idea di non vedere più mia madre, che se ne è andata vent’anni fa. Salvare ciò che si porta e si lascia, non abbiamo che questo di immortale, noi creature finite.
Anche ne Il signor Diavolo, acclamato film del 2019 dal suo omonimo romanzo, che ha sancito il suo ritorno all’horror gotico padano e alle storie di paura narrate una volta davanti al camino delle campagne, è dominato dalla religiosità preconciliare, dalla convivenza del meraviglioso e dell’orrendo e dalla promessa di un segno: un bambino disposto a tutto pur di avvertire ancora la presenza del suo migliore amico. Però non c’è una salvezza.
Invece dovevo salvare e per questo ho scritto un sequel: L’archivio del diavolo. Il male, l’inferno, la salvezza, anche questo è fuori mercato: il diavolo è stato ormai ridotto al bric-à-brac di un’epoca passata. Non che sia più presente nelle omelie in chiesa, ma il male che ti sorprende e non ti aspetti non è cosa da bancarella. Io ho scritto un libro faticoso, dove a dominare è l’imprevisto, l’inaspettato, ma la gente vuole comprare solo cose che sa e che si aspetta, gli scrittori scrivono libri prevedibili. Non c’è offerta né richiesta di uno scritto su cui rischiare un investimento intellettuale. Così succede in tv: potremmo togliere l’audio e doppiare le voci della compagnia di giro onnipresente in ogni talk o salottino, tutti sappiamo cosa pensano, ripetono pappagallescamente le stesse cose. Nessuno sa più dire qualcosa di nuovo. Neanche al cinema.
Lei però sta affrontando ora la madre di tutti i suoi film, «il più sacro» di tutti, meditato per 18 anni e mai tentato prima sulla vita di Dante Alighieri. Che farà perché parli anche a noi contemporanei ormai privi di senso del sacro e della meraviglia? Depurerà Dante come molti nelle celebrazioni dei 700 anni dalla sua morte?
Per carità, sarà un Dante scandaloso perché un Dante essere umano, raccontato attraverso il bene che gli ha voluto Boccaccio, il ragazzo della Vita nuova, il Dante agli antipodi rispetto a quello che ci hanno insegnato nelle scuole italiane degli anni Quaranta e Cinquanta, quando hanno fatto tutto per farcelo odiare. Un ragazzo trafitto dal dolore fin da piccolissimo, che perde la madre, che vede il padre sposare un’altra donna, che ama una ragazzina e aspetta nove anni prima di ricevere un solo saluto e poi la perde, sposa di un altro e morta a soli 24 anni. Un uomo forzato a un esilio ingiusto, che non rivedrà mai l’amata Firenze, condannato alla pena di finire, lui e i suoi eventuali figli, al rogo o decapitato. Un uomo in fuga, che non verrà mai risarcito e non vedrà nemmeno pubblicati gli ultimi canti del Paradiso scritti a Ravenna. Un uomo forgiato da un dolore smisurato che riuscirà a sublimare in poesia, nella convivenza tra genio e umanità assoluta: questo è il Dante che mi interessa, colmare la distanza siderale tra il Sommo Poeta imperscrutabile che ci hanno tramandato scuole e iconografia (o peggio, nell’anno delle celebrazioni ricevo ogni due giorni un libro su “Dante e la gastronomia” o “Dante nel Lazio”) e il Dante uomo che perde tutto e cerca Dio.
Lei parla sempre di dolore e poesia, anche del suo amico Lucio Dalla (compagno di jazz, aneddoti storici e trattorie) disse: «Un grande poeta e creativo perché il dolore è stata la sua scuola più assidua».
Il dolore è indispensabile alla poesia e al rapporto con il prossimo, ho sempre lavorato e cercato persone colme del mistero del dolore, quelle più vulnerabili e prive di anticorpi. Persone che prenderebbero il Covid anche con duecento mascherine, persone nella cui vulnerabilità posso riconoscere il segno della mia. Non dall’alto di un pulpito, ma dell’origine della fragilità di creature quali siamo.
Sulla vulnerabilità, le categorie vulnerabili (quote gender, etniche, disabili eccetera), si fondano le regole per l’assegnazione dell’Oscar nel 2025 per il miglior fim. Da autore delle pellicole più malpensanti, anarcoidi e controcorrente del cinema si è mai sentito condizionato? Ha mai pagato un prezzo per la sua indipendenza?
Ma come può pensare che mi sia sentito condizionato dalle regole? Scemenze così poi mi entrano da un orecchio ed escono dall’altro. Non sopporto le lamentazioni sulle regole ma nemmeno quelle sulla censura. Io scendevo con le fiaccole in piazza negli anni dei sequestri delle pellicole e quando mi censurarono Bordella, per ragioni non certamente legate a scene erotiche ma allo strapotere degli Stati Uniti, fu un’esperienza atroce. Ma non sono mai appartenuto a niente e nessuno. Arrivato a Roma, nei primi anni Settanta, Laura Betti mi introdusse ai salotti, c’erano Moravia, Pasolini, Bernardo Bertolucci. Rischiavo di omologarmi e farmi assorbire, così mi è bastato affermare di essere cattolico e votare Democrazia cristiana. L’ho fatto per difendermi e ho trovato nell’emarginazione una delle forme più efficaci per mantenere la mia identità. La solitudine, essere estraneo al salotto: la mia filmografia non somiglia in nulla ai film dell’anno, nessun mio cast e nessuna mia storia somigliano a quelle degli altri. E se a 82 anni faccio ancora questo mestiere forse c’è chi apprezza. Quindi è ancora possibile essere alternativi. Ci vogliono convincere che non lo è, ma è possibile.
Quattro anni da rappresentante della Findus («i peggiori della mia vita»), 51 film, 16 libri, 3 David di Donatello e altri premi più decine di candidature. Eppure lei ha fatto un sacco di cose scorrette per il pensiero corrente, come scrivere “lettere ai soccombenti”. Quando le chiesero perché ad Alfonso Papa rinchiuso a Poggioreale, che pure non aveva mai visto e conosciuto, rispose: «Sono dalla parte dei più deboli. Quelli che questo paese giustizialista gioisce a vedere in ginocchio». Ha scritto anche a Craxi e a Marrazzo, a Cusani e a Pasquale Squitieri quando lo arrestarono a Napoli. Continua a farlo? Chi sono i soccombenti oggi?
Continuo a farlo. Soccombente può essere anche Beppe Grillo che in un delirio di padre disperato ha commesso un errore clamoroso. Grillo è la persona politicamente più distante da me, ma io resto fedele al mio sentire il prossimo: nella difficoltà anche un nemico arriva dal campo lungo al primissimo piano, entra nel mio vissuto. Io non avrei mai fatto quello che ha fatto Grillo, ma capisco che l’amore di un padre per un figlio possa arrivare ad accecarlo, che l’amore possa portare a fare la cosa più sbagliata e suicida. Ritengo che si sia abbastanza autopunito, altra cosa è approfittarne, specularci sopra. Nessuno di noi è immune dall’imprevedibile, c’è una nemesi in agguato per molte vicende umane. Io ho visto spesso persone affrontare ciò che avevano imputato ad altri: ecco perché ho scritto un messaggio di affetto anche a Beppe Grillo. Questo è abbastanza scorretto?
Foto Ansa
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