Intervista di Luigi Amicone a Paolo Mieli Scena prima. Milano. Interno della libreria Tikkun. Intorno a un tavolo ci sono tre ex sessantottini divenuti illustri protagonisti del giornalismo italiano: Pierluigi Battista (inviato della Stampa), Paolo Mieli (direttore del Corriere della Sera negli anni topici di Mani Pulite e attuale direttore editoriale di Rcs Rizzoli), Gad Lerner (indimenticabile conduttore di Milano-Italia e oggi vicedirettore di La Repubblica). Si presenta un libro imbarazzante scritto dal Battista, “La fine dell’innocenza”, che come già sapranno i lettori è un j’accuse perentorio e definitivo non solo sull’utopia comunista, ma anche sulle connivenze, silenzi, coperture fornite dall’intellettualità italiana a una storia grondante sangue ma che resiste ad essere interamente raccontata e riflettuta, giacché si dice che in Italia l’anticomunismo non ha mai attaccato e non ha mai fatto trend, almeno nelle accademie e nelle scuole. E si capisce perché, ammette anche Gad Lerner, critico di Battista e un po’ imbarazzato difensore della tradizione culturale del giornale che rappresenta: “Mio figlio, 5° elementare, studia storia su un libro di testo dove non si fa menzione del patto Stalin-Ribbentrop tra Germania nazista e Urss comunista. Secondo questo libro il patto di alleanza e di spartizione della Polonia semplicemente non esiste e dunque i sovietici, già nel 1939, vengono presentati sullo stesso piano degli americani, eroi e alleati del movimento antinazista. Questo per dire – prosegue Gad – che io non condivido queste faziosità, però il Pci e il movimento operaio italiano sono un’altra cosa…”. “Ma però cosa?” lo incalza Paolo Mieli, “su, Gad, diciamoci la verità, secondo te chi li ha scritti questi libri? Sù, Gad siamo d’accordo che Pinochet è un maiale perché ha fatto uccidere migliaia di persone? Sì, siamo d’accordo. Siamo d’accordo che Garzon ha fatto bene a inquisirlo, benché quello sia cileno e questo sia spagnolo? Sì, siamo d’accordo. Siamo d’accordo che ha fatto bene la stampa italiana a dare il massimo di visibilità al giudice madrileno? Sì, siamo d’accordo. E allora seguimi Gad: Khieu Samphan, ti dice niente? No, non ti dice niente e non si trova uno straccio di giudice, di giornale, di difensore dei diritti umani che si ricordi di questo tale, il quale oggi vive ancora tranquillo in oriente sebbene sia stato uno dei principali protagonisti del genocidio che ha fatto due milioni di morti in Cambogia. Non sto parlando dei lager e delle purghe di Stalin del ’36. Sto parlando di un fatto avvenuto tra1975 e il 1978, gli stessi di Pinochet. Poi c’è la Russia in Cecenia, Cuba, la Cina, la Corea del Nord eccetera. Gad, non ti sembra strano l’oblio e il silenzio sui pìrotagonisti di tutto ciò?”. Gad: “sì, d’accordo, ma in Italia…”. “Ma in Italia cosa? Secondo te, tu saresti dove sei e io sarei diventato direttore del Coriere della Sera a quarant’anni se non provenissimo, diciamo così; da un certo milieu politico-culturale?”.
Cari lettori, voi capite bene perché, dopo non aver dimenticato che Paolo Mieli è stato il primo giornalista di alto lignaggio (sì, certo dopo averne menato le danze, ma così è se vi pare) ad aprire proprio su queste pagine le cateratte critiche sulla mitologia di Mani Pulite, il primo a sollevare il caso della censura einaudiana a Herling-Salamov, fra i primi a promuovere una riflessione non agiografica sulla storia patria post risorgimentale, lo abbiamo cercato per commentare due fatterelli (Fatima e il libro di Angelo d’Orsi sull’azionismo torinese) che hanno messo qualche brivido nel caldo pensiero di monumenti della cultura italiana (quali il filosofo Eugenio Scalfari e l’azionista Alessandro Galante Garrone).
Ecco dunque la scena seconda. A undici anni dalla caduta del muro di Berlino, primo piano sul muro italiano, purtroppo per i libri di testo della Cgil scuola, gli Istituti Gramsci e di Storia della Resistenza, in via di sgretolamento.
Direttore, sullo spunto del Papa a Fatima, Ernesto Galli Della Loggia ha scritto uno splendido bilancio del ‘900 dimenticato, quello dei crimini comunisti e massonici, contrapponendo il valore della profezia ai disastri dell’utopia. Non occorre essere berlusconiani per ammettere che l’editorialista del Corriere ha scritto cose serie e non smentibili. Eppure gli sono saltati addosso con sarcasmo, dandogli addirittura del bigotto. Secondo lei, perché? Innanzitutto parlo anch’io da laico. Non sono neanche cattolico, sono per metà ebreo e mi sento laico in tutti i sensi, al 100%. Premesso ciò, devo per altro confessare che sono molto interessato alla figura di questo pontefice, del quale penso sia uno dei più grandi di questo secolo, se non della storia. Detto questo le obiezioni che sono state fatte a Galli Della Loggia sono o assolutamente puerili o interessate. Puerili nel senso che la storia del pensiero ci obbliga da sempre, fin dalla sua origine, a misurarci con la profezia e se vogliamo anche con lo scontro tra profezia e utopia. Per dirla in termini molto semplici: la profezia è quella che intravvede rischi e pericoli e che comunque è ambigua, carica di significati che vanno decifrati. L’utopia è invece quella che dipinge un mondo dove i confini sono netti, chiari, sicuri, ma che porta dentro di sé germi terribili. Le profezie spesso servono a scongiurare il male, le utopie portano quasi sempre dentro di sé il male. Perciò chiunque si sia misurato con la storia del pensiero, al di là di credere materialmente che Tiresia si sia manifestato a Ulisse o che la Madonna si sia manifestata ai tre pastorelli di Fatima – è una questione che mi interessa poco, non è questa la distinzione che fa il laico – ha cercato di capire il nesso fra quanto è stato detto da una profezia quando è stata pronunciata e quello che è accaduto dopo. In altre parole: posso crederci o meno a una profezia, il problema del pensiero resta quello del riscontro fattuale e della decifrazione dei suoi significati. Nell’XI canto dell’Odissea, c’è la famosa profezia di Tiresia che incontra Ulisse e gli predice una cosa su cui da sempre storici, filosofi e critici dibattono, e cioè che lui farà un ultimo viaggio nella terra che non conosce il mare, le navi, i remi e il cibo condito col sale; capirà di essere su questa terra e dunque che il suo viaggio è concluso quando troverà un viandante che scambierà il remo che Odisseo porta in mano per una palla di grano. L’Odissea non si chiude, come è noto, si conclude in maniera aperta e la profezia è stata variamente interpretata. Ora, ridurre la discussione – come è stato fatto su Fatima – al fatto che un laico possa materialmente credere che la Madonna sia veramente apparsa a quei tre bambini in quei giorni di maggio del 1917 è come domandarsi scioccamente se Tiresia abbia davvero parlato con Odisseo. Quanto al fatto che un laico possa o non possa credere a una profezia, vorrei solo ricordare che se all’inizio del secolo mi avessero detto che dall’interpretazione di un sogno si poteva guarire un uomo dalla paralisi io avrei detto che quella era una superstizione. Poi sono arrivati Freud e la psicoanalisi… Allora ci sono delle cose che appartengono alla storia dell’umanità da migliaia di anni – e non a caso ho citato l’Odissea – come il rapporto tra sogno, visione, profezia, e che fanno parte di una dimensione a cui la scienza può non arrivare mai o a cui può adeguarsi lentamente. L’idea che tra un sogno e la guarigione da un male estremo potesse esserci un rapporto è stata giudicata una superstizione dagli stessi che giudicano come superstizione ogni discorso su Fatima. Avevano evidentemente torto ed è ovvio che il lungo dibattito che percorre la storia del pensiero su sogni e profezie è qualcosa di più profondo, in cui la religione coglie più in profondità di quanto possa fare il pensiero scettico.
Non hai ancora risposto: cosa c’è al fondo di questa sarcastica obbiezione? Il motivo per cui questa obiezione viene mossa con tanta virulenza è che con i suoi cenni alla profezia di Fatima – poi la leggeremo, vedremo cosa contiene quando sarà pubblicata – il Papa affronta il tema del ‘900 dominato da ideologie che hanno provocato infiniti lutti. Ideologie tra le quali anche i comunismo. E sottolineo l’anche: perché lo stesso Pontefice in questi anni ha ricordato l’Olocausto e tanti altri genocidi, in modo trasparente, aperto, dopo una lunga stagione in cui ha chiesto perdono e ha messo in discussione alcuni atti importanti della storia della Chiesa, provocando un dibattito anche nel suo mondo. E allora questa reazione smodata, infastidita è l’ennesima reazione che si ha ogni volta, in ogni caso e in qualsiasi circostanza, dalle piccole alle grandi, da parte di coloro che non vogliono sentir parlare di uno dei grandi problemi del ‘900, degli infiniti lutti e delle modalità con cui questi lutti sono prodotti del comunismo. Questo è un problema aperto e, come è noto, io sostengo la tesi che prima o poi – a mio avviso sarebbe meglio prima, perché lo stillicidio sarà drammatico, ma ineludibile – arriverà la resa dei conti: non già un’epurazione, ma il racconto di questa storia con tutti i dettagli e il pathos, il capire come è stato possibile, perché è stato chiuso un occhio, se c’erano responsabilità da parte di chi ha chiuso un occhio. Insomma tutto quello che è stato fatto contro il fascismo e il nazifascismo andrà rifatto nei confronti del comunismo. Senza volerli mettere sullo stesso piano, riconoscendo che il nazismo ha un suo primato, una sua unicità, tutto quello che vuoi, ma l’idea di nascondere all’ombra di questo primato crimini dell’altro grande sistema dittatoriale di questo secolo è puerile, non fa che rimandare la resa dei conti, che è tutta intellettuale, che prima o poi dovrà avvenire.