
Alla fine si scoprono gli altarini. I 180 manager d’impresa americani che hanno firmato e fatto pubblicare come inserzione a pagamento un manifesto contro le limitazioni legali all’aborto in alcuni stati degli Usa intitolato “Don’t ban equality”, “non proibite l’uguaglianza”, arrivano al punto: quel che fa problema, nel mondo della produzione, è la gravidanza come tale.
È la gravidanza che non permette alle donne in età fertile di essere uguali ai maschi e alle donne in menopausa sul posto di lavoro. È la gravidanza che azzoppa le possibilità di carriera, arricchimento, autorealizzazione della giovane donna lavoratrice, che non le permette di competere ad armi pari coi maschi e con le donne in menopausa. L’aborto è il rimedio che permette di ristabilire la parità di condizioni. Ma è evidente che si tratta solo di un rimedio: rudimentale, sanguinoso, sporco. Occorrerebbe andare alla radice del problema.
CORREGGERE “L’ERRORE” DI DIO
E la radice sta nel fatto che ci sono alcuni esseri umani che portano su di sé il peso della riproduzione della specie (la parola giusta per gli umani è procreazione, ma questi signori sono industriali, ragionano in termini quantitativi e di unità di produzione, perciò stiamo al loro modo di ragionare), mentre altri ne sono totalmente o quasi totalmente esenti. Se non si corregge questo errore di Dio – l’errore di avere creato l’umanità nella forma irriducibile della dualità maschio-femmina e di aver stabilito la sua perpetuazione attraverso un connubio sessuale asimmetrico, che prevede compiti decisamente sbilanciati -, l’uguaglianza degli umani resterà per sempre un mito, un arnese ideologico, un’ipocrisia. Bisogna abolire la gravidanza, ovvero bisogna trasportarla fuori dal corpo umano, come nel Mondo nuovo di Aldous Huxley.
Naturalmente il manifesto non dice questo, usa il linguaggio dei diritti e delle opportunità per mascherare gli interessi del capitale e del profitto e la logica della crescita illimitata. «Quando a ciascuno è dato il potere di riuscire», vi si legge, «le nostre aziende, le nostre comunità e la nostra economia vanno meglio. Restringere l’accesso all’assistenza riproduttiva globale, compreso l’aborto, minaccia la salute, l’indipendenza e la stabilità economica dei nostri dipendenti e clienti. Detto in parole semplici, va contro i nostri valori ed è negativo per gli affari (“is bad for business”). Compromette la nostra capacità di costruire canali di manodopera diversificati e inclusivi, di reclutare i migliori talenti in tutti gli stati degli Usa e proteggere il benessere di tutte le persone che fanno prosperare le nostre attività quotidianamente. Il futuro dell’uguaglianza di genere è a repentaglio, e mette a rischio le nostre famiglie, comunità, imprese e l’economia in generale. Noi sottoscritti rappresentiamo più di 108 mila lavoratori e prendiamo posizione contro le politiche che ostacolano la salute, l’indipendenza e la possibilità di pieno successo sul posto di lavoro di tutte le persone».
L’ABORTO SERVE AI CONSUMI
Al netto della retorica e dell’ipocrisia, il succo del messaggio è: se le donne non possono abortire, lavoreranno di meno e consumeranno di meno, i nostri profitti diminuiranno e i nostri bilanci ne risentiranno, e questo ricadrà su tutti voi, perché noi siamo quelli che vi danno da lavorare. La necessità di risolvere il problema alla radice con un outsourcing della riproduzione umana ai laboratori di biologia si desume dalla frase: “The future of gender equality hangs in the balance, putting our families, communities, businesses and the economy at risk”. L’uguaglianza di genere è un programma da realizzare, e come tutti i programmi si realizza nel futuro.
Non coincide con uguale retribuzione per uguale lavoro e diritto di abortire, necessari ma non sufficienti: uguaglianza vuol dire uguaglianza, quindi occorre procedere per rendere sempre più uguali uomo e donna anche dal punto di vista riproduttivo. Non si può tornare indietro (divieto o forte limitazione dell’aborto), ma nemmeno fermarsi: bisogna andare avanti. Profitti illimitati e crescita illimitata hanno bisogno di uguaglianza e di efficienza: se solo le donne non restassero incinte, se solo non avessero le mestruazioni…
GLI OBIETTIVI DEL NUOVO CAPITALISMO
Da tempo è evidente il fenomeno degli industriali che hanno raggiunto in prima fila partiti politici, organizzazioni militanti, attori e attrici di Hollywood e cantanti impegnati a rivendicare i “nuovi diritti” in materia di sesso e famiglia. Grandi imprese patrocinano i Gay Pride, mettono a punto scrupolosamente e poi pubblicizzano con enfasi le proprie politiche aziendali “lgbt friendly”, si schierano sul fronte “progressista” nel dibattito politico su aborto, unioni civili, matrimonio omosessuale, utero in affitto, ecc. Chi pensa che tutto questo sia il risultato di un ricatto strisciante (“se non ti dimostri attivamente pro-lgbt boicottiamo i tuoi prodotti e ti facciamo cattiva pubblicità etichettandoti come omofobo”), sbaglia: la grande impresa è a favore di tutte le cosiddette battaglie per l’emancipazione e per l’uguaglianza perché sono nel suo interesse dominante, che è quello di massimizzare i profitti.
Nella fase della prima industrializzazione i capitalisti borghesi hanno mutuato l’austera morale cristiana in fatto di famiglia e di sesso perché la produzione industriale manifatturiera aveva bisogno di disciplina e di sacrificio: per rendere al meglio il lavoratore doveva avere una vita familiare stabile, andare a letto presto anziché far tardi in giro e contrarre malattie sessualmente trasmissibili; doveva essere responsabile di una prole numerosa, le cui necessità lo avrebbero dissuaso dall’organizzare scioperi e impegnarsi in attività politiche di ispirazione rivoluzionaria. Tutto cambia a partire dagli anni Sessanta e poi ancora più accentuatamente col boom dell’economia finanziarizzata e dei servizi all’inizio del terzo millennio: oggi il lavoratore è meno un fornitore di manodopera che un consumatore di prodotti e servizi.
NUOVE FORME DI SFRUTTAMENTO
Il lassismo morale in materia di sesso e famiglia e la parola d’ordine dell’uguaglianza con cui si giustificano legislazioni massimamente permissive in fatto di aborto e “matrimonio per tutti”, sono funzionali all’espansione dei consumi e alla crescita illimitata, che sola giustifica profitti illimitati. Più libertinismo, più forme di convivenza, più modi di mettere al mondo figli, più divorzi e quindi più relazioni nel corso della vita, più generi sessuali sono tutte opzioni da promuovere perché perfettamente funzionali alla crescita economica. Poco importa se l’instabilità delle unioni, la precaria strutturazione psichica dei figli dell’eterologa e delle famiglie arcobaleno, i tassi di natalità sotto la soglia del rimpiazzo generazionale, ecc. generano un diffuso disagio esistenziale: i costi sociali, com’è sempre successo con un certo tipo di capitalismo, vengono esternalizzati alla società.
Ieri quelli legati alle malattie professionali, oggi quelli legati alle malattie psichiche. Ieri la silicosi, oggi la depressione. L’unica differenza sta nel fatto che i partiti politici eredi di quelli che al tempo della prima industrializzazione rappresentavano gli interessi dei lavoratori in conflitto con quelli dei datori di lavoro, oggi in materia di “diritti civili” si trovano sulle stesse posizioni della grande impresa. E scambiano per progresso ed emancipazione quelle che sono nuove forme di sfruttamento e di alienazione.