Il Big Bang della fecondazione

Di Emanuele Boffi
20 Dicembre 2011
“Il misterioso passaggio dal non esistente all’esistente ha convertito il dottor Piccinni che ha smesso di fare fecondazione in vitro. E ha rinunciato a una montagna di soldi”. Ripubblichiamo un articolo apparso su Tempi 9/2005

«Vennero da me perché desideravano avere un figlio. Erano sulla quarantina, benestanti, di Roma. L’età della coppia e le loro caratteristiche biologiche non permisero di ottenere in laboratorio che un solo embrione. Era però quello che io classificavo come un embrione “brutto”, cioè con caratteristiche non idonee per essere trasferito in utero. Se non fosse stata quella l’unica chance per esaudire il loro desiderio, non avrei mai proposto loro di provare. Embrioni simili, non avevo mai esitato a cestinarli. Oggi quell’embrione ha 13 anni, si chiama Marco ed è sano come un pesce».

La storia risale al 1992, ma Orazio Piccinni la racconta con la dovizia di sfumature di uno cui è capitato ieri di aver fatto scampare all’embrione Marco il frigorifero o la discarica. Oggi Piccinni lavora nel reparto di Ostetricia e ginecologia di una famosa clinica di Bari e non fa più fecondazione in vitro (Fiv). Ma in Italia, almeno al Sud, ne fu uno dei precursori. «Ero un allievo di Vincenzo Traina che mi insegnò la Fiv e, su sua indicazione, fondai nel 1989 il centro di procreazione assistita nel capoluogo pugliese. Si era in pochi allora, soprattutto nel meridione e la gente arrivava a frotte. Anche perché fummo fra i primi a praticare la fecondazione in tempi in cui pochi conoscevano questo tipo di procedura e si limitavano all’inseminazione». Piccinni rammenta il delirio di onnipotenza di quei giorni, l’illusione di sentirsi migliori della natura, la sbornia che ti prende la testa quando hai tra le mani la soddisfazione di un bisogno altrui. «Ritenevo di fare del bene. Credevo di essere buono perché fornivo dei figli a persone che non potevano averne».

Poi capitò l’embrione Marco e Piccinni, tormentato da un po’ di tempo dallo sprone del dubbio, si ricredette: «Mi resi conto che quell’embrione che tutta la mia scienza avrebbe scartato e destinato alla distruzione, poteva invece arrivare ad essere un bambino. E pensai: quanti Marco ho buttato via fino ad oggi?». Uno Shakespeare moderno affermerebbe che “ci sono più cose in cielo e in terra che nella tua provetta, Orazio”. È il 1996, Piccinni abbandona la Fiv. «Mi costò fatica. Fatica economica, intendo. Si guadagnava molto, come avviene ancora oggi. I sostenitori della Fiv non mi imbrogliano con i loro propositi umanitari. Io so cos’è: un’ industria che funziona sulla domanda e sull’offerta. Si pensa di iniziare l’esistenza, ma il laboratorio è una fabbrica che produce morte, non solo vita».

«Quella cellula ero io»
Il 31 gennaio il ginecologo è stato invitato al convegno dell’Accademia dei Lincei su “Procreazione assistita: problemi e prospettive”. Nel testo del suo intervento parla di delirio di onnipotenza. «Quel delirio che ti assale quando annunci a una coppia sterile il risultato positivo del test. L’euforia di una buona notizia che ti fa dimenticare che per arrivarci hai dovuto sacrificare la gran parte degli embrioni prodotti».

Piccinni si sente un po’ come san Tommaso, «perché noi siamo fatti così: non crediamo finché non mettiamo il dito nella piaga, finché non ci accorgiamo che stiamo parlando di carne e ossa». Si è convertito guardando dentro a un microscopio perché «sì, ero cristiano, ma diciamo che lo ero così, per tradizione. Insomma, non me ne importava più di tanto e certamente non ero un praticante». Poi, però, guardando quel momento in cui i due gameti si uniscono «iniziarono a venirmi i brividi. Man mano che scoprivo le potenzialità di quella cellula, aumentava la mia sete di conoscenza e con essa i miei dubbi – fa una pausa – e le mie domande». Intanto inizia a pensare che «quella cellula ero io. Io sono un ex embrione, e insistevo con le mie pazienti di portare rispetto al nato, ma anche agli embrioni che erano stati congelati o cestinati perché quel nato ci fosse». Il dottore giura che la sua non fu una conversione sulla via di Damasco, ma un processo lungo e graduale. Assicura con altrettanta certezza «di essere diventato cattolico in laboratorio, con l’occhio appoggiato sul microscopio». Perché nelle primissime fasi del concepimento, quando l’ovocita e lo spermatozoo, due cellule in sé insignificanti, si uniscono, «lì, in quel momento lì, c’ è un mistero. C’è una scintilla e poi via di seguito dei fenomeni a cascata che ininterrottamente porteranno a quello che è Orazio Piccinni oggi». Eppure molti scienziati parlano di ootide, di diverse fasi di sviluppo di un oggetto e non di una persona, di convenzioni, ma per il medico «sono distinzioni che non stanno in piedi. Nelle prime venti ore dopo la scintilla c’è già una “comunicazione” unica e attiva fra i due fusi di cromosomi, materno e paterno, i cosiddetti pronuclei».

Nella memoria presentata ai Lincei, Piccinni ha scritto che «già nei primi minuti e nelle prime ore in seguito alla penetrazione dello spermatozoo nell’ovocita si definisce dove spunterà la testa, i piedi e da quale parte si formerà la schiena e la pancia». «La natura – riprende il ginecologo – fa tutto alla perfezione, è la natura che ci mostra il mistero. Io dico sempre che nel processo di fecondazione è nascosto lo stesso mistero che c’è stato nel Big Bang, il passaggio dal non esistente all’esistente». Davanti a quel quid insondabile, Piccinni non ha potuto altro che «fare un passo indietro. Nel dubbio ci si ferma, è il principio di precauzione ad insegnarcelo, no?».

Peggio dell’aborto
Per Piccinni la legge 40 («erroneamente – intercala nel discorso – definita “procreazione medicalmente assistita”, non si tratta di “procreazione” ma di “riproduzione” artificiale) «è una norma che non tutela la dignità della coppia e dell’embrione, ma è il male minore». Piuttosto, quel che non gli garba, è che nessuno rammenti le contraddizioni della Fiv. Ha scritto ai Lincei: «Il tasso di gravidanza si è attestato nei migliori centri al 30 per cento circa per ciclo di trattamento. Molti test positivi di gravidanza sono destinati precocemente a negativizzarsi a causa di un aumentato numero di aborti biochimici o clinici nei primi tre mesi. Abbiamo come risultato finale, rispetto al 30 per cento iniziale illusorio, solo il 10-12 per cento di bambini nati cosiddetti in braccio. Su cento embrioni prodotti ne nascono massimo quindici. Se si trattasse di un’ industria di automobili, avrebbe chiuso già da tempo per fallimento. Se io fossi un embrione pretenderei più garanzie di sopravvivenza». E poi ha aggiunto: «In questo senso la Fiv, per numero di vite soppresse, è indubbiamente peggiore della interruzione di gravidanza. Spesso le pazienti non conoscono questo dato, così come l’aumento dal 2 al 6 per cento delle malformazioni».

«Finché la gente non capisce veramente che cosa accade in laboratorio – spiega oggi Piccinni – non avrà la libertà di una scelta responsabile, e si continuerà a parlare di diritti e desideri esaudibili dalla scienza e dalla tecnica». Con la Fiv «si è stravolto il concetto di gravidanza che non inizia più dal concepimento, ma dall’esito di un test». Questo crea delle tensioni e delle aspettative assolutamente nefaste per la coppia stessa. Piccinni lo dice osservando la propria esperienza: «Quando oggi una coppia che si ritiene sterile mi consulta, io cerco innanzitutto di tranquillizzarli e spiego loro che anche in condizioni ottimali, ad ogni rapporto, esiste solo il 25 per cento di fecondazione (che è la più bassa tra le specie animali). A volte servono due, tre, dieci anni prima che si possa parlare effettivamente di sterilità. Questo lo prova anche il fatto che molte coppie dopo aver avuto figli con la Fiv, li abbiano poi naturalmente e scoprano così di non essere mai stati sterili. La natura ha i suoi tempi per ognuno di noi». Purtroppo viviamo immersi in una cultura che pretende dalla scienza l’esaudimento dei propri desideri, «e molti colleghi non si fanno scrupoli ad alimentare questo convincimento».

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