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«I soldi, le violenze, gli scafisti. Vi racconto i viaggi della speranza dei miei connazionali eritrei»

Intervista a una mediatrice culturale del ministero. «Pagano 2600 dollari per il viaggio, spesso vengono arrestati. Solo i più "fortunati" riescono a salire sui barconi»

Chiara Rizzo
05/10/2013 - 5:00
Interni
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I 100 compagni di viaggio dei sei migranti egiziani morti il 10 agosto sulle spiagge di Catania erano in gran parte eritrei. C’erano numerosi eritrei tra quei 76 che il giorno di Ferragosto furono salvati dai bagnanti nella spiaggia di Porto Palo. Erano eritrei i 13 clandestini morti sulle spiagge di Scicli (Rg) solo qualche giorno fa, proprio come eritrei sono le vittime che oggi piangiamo dopo la tragedia di Lampedusa.
Anche G. M. è eritrea, vive da molti anni in Italia, e lavora come mediatrice culturale per il ministero dell’Intero, nei vari centri della Sicilia. Ha accolto e ascoltato le testimonianze dei migranti di Scicli sopravvissuti, come di tutti gli altri che sono stati accolti dalla Sicilia: è il suo uno dei primi volti che i suoi connazionali incontrano dopo i tragici viaggi della speranza.

Che cosa le hanno raccontato del loro viaggio?
Mi hanno detto che erano 235, e che erano in maggioranza eritrei, salve qualche siriano. Mi hanno detto che erano partiti venerdì da Tripoli, e raccontato un viaggio che corrisponde alle testimonianze che ho ricevuto molte altre volte. Il viaggio lo hanno fatto con gli scafisti a bordo, poi, una volta che si sono avvicinati alle spiagge siciliane, la tragedia. Alcuni mi hanno detto che i trafficanti gli hanno intimato di buttarsi, ma uno per volta. Il mare era mosso e c’era corrente. Dopo è stato il caos. È difficile capire che cosa sia accaduto: molti mi hanno detto che non si volevano buttare, e allora gli scafisti hanno iniziato a picchiarli. Uno dei ragazzi eritrei, che è scappato una volta arrivato in spiaggia e col quale sono riuscita a parlare, mi ha detto che in realtà però non è andata così: forse qualcuno è caduto in acqua, e poi è scattato il panico, e che qualcuno a bordo con dei bastoni cercava di bloccare i compagni di viaggio per evitare che cadessero in acqua. Non posso dire chi abbia ragione.

Il loro viaggio, dice, assomiglia a quelli di tanti suoi connazionali. Cosa le raccontano? Da dove partono?
Partono dall’Eritrea, per lo più scappano per evitare il servizio militare, che è obbligatorio e può durare persino 20 anni. Lo fanno attraverso il Sudan: lì è facile incontrare un trafficante che ti aiuta. A quel punto viene chiesta una prima cifra variabile, per il viaggio in auto sino alla Libia, tra i 1000 ai 1600 dollari americani. Non ho mai sentito di persone che abbiano viaggiato a piedi o in altro modo, finora. Nei porti libici, invece, devono pagare una seconda tranche, fissata in 1.600 dollari per adulto, bambini esclusi, per il viaggio in mare sui barconi. Spesso questi soldi sono il frutto di una colletta di tutta la loro famiglia.

Giunti in Libia non hanno alcun problema, non devono superare alcun controllo?
Al contrario, sebbene al confine della Libia siano accolti dai referenti dei trafficanti, è facile che gli eritrei migranti finiscano in galera. Sono  pochi quelli che sono arrivati tranquillamente ai porti, e raccontano di essere fortunati. La maggioranza rimangono in carcere dai tre ai sei mesi e molte volte la polizia chiede loro delle tangenti per essere rilasciati. Sono cifre che variano, ovviamente, ma di solito si aggirano sui 500 dollari. Chi sta in carcere si trova in condizioni devastanti, non solo per l’igiene inesistente e per il cibo scarsissimo, ma anche per la violenza. Alcuni poi riescono scappare, altri vengono rilasciati dopo mesi. A quel punto, la direzione resta per tutti quella dei porti: di solito Tripoli.

Cosa le raccontano del viaggio in mare?
Nessuno ne parla. Credo vogliano dimenticare. Nel caso di Scicli, ho visto però persone molto scosse dopo il loro arrivo. Erano scioccati di scoprire che i loro i compagni di viaggio erano morti, piangevano mentre parlavano. Non hanno fatto in tempo a vedere chi si salvava o annegava, si buttavano in acqua e pensavano solo a nuotare il più velocemente possibile.

Le capita di sentire i loro racconti anche dopo la prima accoglienza? Cosa le raccontano dell’Italia, come si trovano qui?
In Italia, inizialmente, si sentono accolti, poi magari insorgono problemi. Ma oggi chi arriva sa già che in Italia non c’è lavoro, e molti mi dicono che vogliono scappare verso la Norvegia, Danimarca, Svezia o Germania.

Tags: barconiCieeritreilampedusaMigrantiministero dell'InternoscafistiScicli
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