I signori della guerra santa in Nigeria
[internal_video style=”height: 200px; width: 299px; float: left; margin-right: 10px; margin-top: 5px;” vid=24345]Pubblichiamo l’articolo uscito sul numero 05/2012 di Tempi.
«Fate la massima attenzione, avvisate pastori e fedeli perché venerdì comincerà il jihad». È il testo di un sms che arriva sui cellulari di molti cristiani del Nord della Nigeria il 12 gennaio. La tensione sale immediatamente, tutti prendono sul serio il messaggio dopo gli attentati dinamitardi del 25 dicembre a una chiesa evangelica di Jos e una cattolica di Madalla, nella periferia della capitale Abuja, dove hanno perso la vita 40 cristiani. Venerdì 13 gennaio, invece, non succede niente ma il messaggio “sbaglia” di poco: appena una settimana dopo, il 20 gennaio, una ventina di esplosioni oltre a due attacchi kamikaze sconvolgono la seconda città più popolosa della Nigeria, Kano, capitale dell’omonimo stato nel Nord, uccidendo 185 persone secondo fonti ufficiali, 250 secondo Civil Rights Congress.
«Gli attentati ci hanno lasciato senza parole», dice a Tempi Caterina Dolci, suora missionaria bergamasca del Bambin Gesù, da 27 anni in Nigeria. «La situazione è sempre più grave, la tensione altissima. La gente sta all’erta, le chiese sono sorvegliate da drappelli di fedeli e dalla polizia. Di notte si sta attenti se si vedono persone sospette. La fiducia reciproca è minata alla radice e tutti i nigeriani, anche i musulmani, si chiedono come si possa arrivare a tanto». Nessuno può rispondere a questa domanda, tranne i responsabili della violenza che da mesi sconvolge il paese più popoloso dell’Africa, la setta islamica di Boko Haram. Letteralmente il nome si traduce “L’educazione occidentale è peccato”, e che cosa significhi lo ha spiegato alla Bbc il fondatore e capo del gruppo, il religioso Ustaz Mohammed Yusu, rimasto ucciso in uno scontro con la polizia nel luglio 2009: «L’educazione occidentale presenta istanze contrarie al nostro credo islamico. Come la pioggia: noi crediamo che sia una creazione di Dio, non un’evaporazione causata dal sole che condensandosi diventa pioggia». E ancora: «Il mondo è una sfera: se questa asserzione va contro gli insegnamenti di Allah, noi la rigettiamo. Così come rifiutiamo il darwinismo». Gli estremisti di Boko Haram sono tanto sconosciuti in Europa quanto famigerati in Nigeria. Dopo aver organizzato alcuni attacchi terroristici, la setta islamica fondata nel 2002 si è affiliata nel 2009 ad Aqmi, il ramo nordafricano di Al Qaeda, cominciando a realizzare attentati più sofisticati, come quello dell’agosto 2011 alla sede Onu di Abuja, dove hanno perso la vita 24 persone. Dal 2009 a oggi, secondo Human Rights Watch, i terroristi hanno fatto 935 vittime. Ma il dato, basandosi su cifre ufficiali del governo, potrebbe essere sottostimato.
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«Diamo tre giorni di tempo ai cristiani del Sud per andarsene dal Nord», ha tuonato dopo gli attentati di Natale Abul Qaqa, uno dei portavoce della setta islamica. «La religione in realtà è tutta una copertura», spiega invece padre Peter Kamai, vicerettore del seminario St. Augustine nella diocesi di Jalingo, capitale dello stato di Taraba, nel Nord-Est della Nigeria. «L’obiettivo di Boko Haram è il potere, anche se cercano di mascherarlo. La verità è che i musulmani hanno perso il comando del paese, e ora vogliono riprenderselo». In Nigeria la pensano quasi tutti come Peter e gli attacchi di Kano, rivolti principalmente contro strutture governative e istituzionali, sembrano confermarlo. Ma dove si annida nel governo nigeriano il cancro che Boko Haram vuole estirpare con la violenza? Nella testa, cioè il presidente Goodluck Jonathan, o, come lo chiamano ormai tutti, “Badluck”. La “colpa” di Jonathan è di essere nato 55 anni fa nell’attuale stato di Bayelsa, nel Sud nella Nigeria, e di essere un cristiano di etnia ljaw. È divenuto presidente per caso, quando il 5 maggio 2010 una malattia ha ucciso il musulmano Umaru Yar’Adua, presidente dal 2007. Jonathan era il suo vice e la carica più alta dello Stato è passata a lui senza elezioni. Così fu scelto un vicepresidente musulmano, per rispettare la regola non scritta secondo la quale la Nigeria deve essere guidata a fasi alterne da un islamico con vice cristiano e viceversa, in rispetto della doppia anima che, al netto delle diverse tribù che lo popolano, separa il Nord a maggioranza musulmana dal Sud cristiano. Jonathan è stato poi rieletto nell’aprile scorso, battendo l’islamico Muhammadu Buhari, del Congress for Progressive Change, il principale partito del paese. «Jonathan è un presidente simpatico, una persona semplice, alla mano, un brav’uomo». L’opinione di suor Caterina è condivisa da molti. Ma per la Nigeria ci vuole altro. «Probabilmente non è adatto a governare un paese così contraddittorio in un frangente complesso come questo». La mancanza di polso di Jonathan non si riscontra solo nell’impotenza dimostrata dal suo governo davanti agli attacchi di Boko Haram. Anche il taglio dei sussidi statali ai prodotti petroliferi e il conseguente sciopero generale ne sono una prova.
La divisione come costante
Nella notte tra il 31 dicembre e l’1 gennaio il prezzo della benzina è raddoppiato. Il costo di un litro di carburante è passato nel giro di poche ore da 65 naire (circa 30 centesimi di euro) a 140 (66 centesimi). La Nigeria è il decimo produttore mondiale di petrolio ma ha solo quattro raffinerie, che funzionano poco e male, così è costretta a farselo raffinare all’estero. Alla base dell’aumento c’è la scelta di Jonathan di eliminare i sussidi al carburante, ovvero di tagliare gli 8 miliardi di dollari (4 per cento del Pil) spesi ogni anno per mantenere basso il prezzo della benzina a favore delle ricche élites di potere. Il presidente ha promesso di investire quei soldi in scuole, ospedali, strade, sanità di base e formazione professionale. Una decisione coraggiosa, se si pensa che la Nigeria è un paese dove oltre il 60 per cento dei suoi 160 milioni di abitanti vive con meno di un dollaro e mezzo al giorno e il calmiere della benzina, per quanto faccia molto gioco a pochi, è anche un sollievo per i tanti poveri. Risultato? Centonovantadue ore di sciopero generale selvaggio, almeno 15 morti, numerosi arresti, 600 feriti e 3.750 milioni di euro buttati al vento per il blocco di ogni attività lavorativa. Dopo 8 giorni, Jonathan si è arreso alla piazza ed è stato costretto a ripristinare in parte i sussidi. «Era giusto tagliarli perché solo i pochi ricchi traggono davvero vantaggio dai prezzi così bassi», spiega padre Kamai. «È il modo a essere sbagliato: ha avuto troppa fretta, non ha preparato l’opinione pubblica a un cambiamento così radicale. Non si può agire all’improvviso e sperare che la gente capisca. Poi, certo, molti hanno approfittato dello sciopero per danneggiare il presidente, ma è mancata una vera azione politica».
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Boko Haram, però, non segue le regole del processo democratico. Non è per un presunto bene dei nigeriani che mette le bombe nelle chiese, nelle case, davanti agli uffici della polizia e del governo. «Il problema è sicuramente etnico-politico prima che religioso, la fede viene utilizzata come facciata», osserva Barbara Pepoli, responsabile di Avsi in Nigeria e residente a Lagos, nel Sud del paese, dal 2005. «Per rendersi conto di che cosa stia succedendo qui, bisogna capire che in Africa l’appartenenza alla tribù è fondamentale: prima di tutto viene la tua etnia, la tua gente. Un senso di appartenenza incomprensibile per gli europei. L’africano sa di vivere perché appartiene, ma se questo senso profondo non è educato può esprimersi in modo istintivo e violento: etnia contro etnia». Conferma suor Caterina: «Religione, etnia e potere politico in Nigeria sono quasi inscindibili. Ci sono etnie del Nord composte al 99,99 per cento da musulmani, come gli hausa. Loro vogliono che al potere ci sia un musulmano del Nord, se fosse del Sud già non andrebbe bene, non sarebbe considerato un vero islamico. Al vicepresidente di Jonathan, un bravissimo islamico del Sud, per intenderci, Boko Haram ha messo una bomba in casa».
Una banda di marionette?
Compiere 20 attacchi dinamitardi a Kano contro un quartiere generale della polizia, un ufficio dei servizi di informazione, vari commissariati e due bureau dell’immigrazione dovrebbe essere un’impresa difficile. Che invece tutto sia stato così semplice per i terroristi islamici preoccupa molto il presidente e l’intero il paese. E non sono certo le 200 persone (per lo più mercenari venuti dal Ciad) arrestate la scorsa settimana per gli attentati a tranquillizzare la gente. Jonathan ha denunciato a più riprese la presenza di infiltrati di Boko Haram «nell’intelligence, nella polizia, nel governo e anche all’interno del mio stesso partito». Il 22 novembre scorso il senatore Ali Ndume, del Pdp, il partito al governo, era stato incarcerato per avere pianificato un attacco, ma il 19 dicembre è stato rilasciato su cauzione. «A inizio gennaio un membro di Boko Haram, ritenuto responsabile dell’attentato alle chiese del 25 dicembre, è stato scovato dalla polizia e messo subito in prigione», racconta suor Caterina. «Due settimane fa hanno deciso di trasferirlo in un’altra prigione e nel tragitto è riuscito a scappare. Ora non si sa dov’è. È chiaro che questi fatti scoraggiano la gente». E fanno presumere che dietro a Boko Haram si nascondano personaggi che, magari dall’estero, sfruttano il fanatismo islamico di un gruppo per ottenere vantaggi politici. «Molti pensano che a rifornire di soldi e armi Boko Haram ci sia il candidato presidente musulmano sconfitto Buhari, che adesso sarebbe in Arabia Saudita, e paesi stranieri come la Somalia o l’Iran, interessati anche al nostro petrolio».
L’esistenza di personaggi e paesi esteri che vogliono sfruttare Boko Haram per prendere il potere in Nigeria non è una teoria complottistica campata per aria. Ma un’ipotesi adeguata per spiegare razionalmente quello che succede da ormai un mese, come spiega a Tempi Ignatius Kaigama, arcivescovo di Jos, una delle città più colpite dagli attacchi, «Boko Haram è un movimento religioso che vuole purificare l’islam e riportarlo alle origini. In tanti vogliono sfruttarlo per il loro potere personale e per arricchirsi. Come può Boko Haram d’improvviso riuscire a compiere attacchi così sofisticati contro il governo, attentando alla sicurezza di tutti? Sono evidentemente aiutati da qualcun altro. Non mi sorprenderebbe se ci fossero politici e anche paesi stranieri a guidarli. Vogliono che la Nigeria diventi un paese islamico». Un desiderio che, contrariamente a quanto si pensa, non è condiviso dagli stessi islamici: «Anche i musulmani sono terribilmente offesi e spaventati da Boko Haram. Non dimentichiamoci che la violenza colpisce in modo indiscriminato anche loro. Tutti i nigeriani soffrono e dobbiamo metterci insieme per combattere il male. Di anno in anno ho visto crescere la violenza a Jos, più il tempo passava e più gli attacchi si facevano gravi e feroci. La gente non ha desiderato di cambiare davvero, il governo forse è impaurito, ma dobbiamo fare di più. Non impugnare le armi e rispondere al male con il male, ma usare tutte le nostre risorse per combattere il crimine e queste persone. Dobbiamo pregare e rispondere a chi ci uccide con il perdono, solo così eviteremo una nuova guerra civile. Io credo nella fede e in Dio, che può sconfiggere il male».
«La nostra fede ora è più matura»
Un bene di cui si vedono piccoli segni tra le macerie e il dolore. «Ho un caro amico che viveva nel Nord», racconta la responsabile di Avsi, «un cristiano originario del Sud che abitava a Kano. È stato letteralmente portato in salvo da un suo amico musulmano hausa, che durante un attacco è andato a prenderlo e l’ha nascosto in casa sua». In uno stato del Nord islamico, dice suor Caterina, «cristiani e musulmani si sono messi insieme per difendersi a vicenda. Hanno cominciato a ragionare dopo gli attacchi e ora si battono per la Nigeria uniti, proteggendo chiese e moschee». Anche il cristianesimo minacciato dalla persecuzione, paradossalmente, cresce e si fortifica. È quello che ha scoperto padre Kamai: «Vedo che la fede dei nigeriani è più forte di prima. Lo si nota in chiesa, la gente non ha paura di morire. Questa è una cosa buona perché la nostra fede, messa alla prova, è diventata più matura, più seria, più consapevole. So che è strano ma la storia della Chiesa è costellata di persecuzioni. E quando ci sono le persecuzioni, la Chiesa rinasce perché soffre come ha sofferto Gesù, che ci fa crescere anche in mezzo al dolore».
twitter: @LeoneGrotti
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