Il Deserto dei Tartari

I partiti ambientalisti perdono perché non amano davvero l’ambiente

Di Rodolfo Casadei
17 Giugno 2024
Oltre alle reazioni avverse causate dal Green Deal e dagli show degli ecovandali, il tracollo dei Verdi alle elezioni europee ha anche una spiegazione più profonda
I volti di Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni su una pubblicità elettorale di Avs (Alleanza Verdi Sinistra) a Roma in vista delle elezioni europee dell’8 e 9 giugno scorsi
I volti di Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni su una pubblicità elettorale di Avs (Alleanza Verdi Sinistra) a Roma in vista delle elezioni europee dell’8 e 9 giugno scorsi (foto Ansa)

Alle recenti elezioni per il Parlamento europeo Verdi e partiti ecologisti hanno patito batoste in tutta Europa, tranne che in Italia. Francia e Germania sono stati i teatri delle sconfitte più cocenti per gli eredi di Daniel Cohn-Bendit e di Joschka Fischer: il risultato italiano (6,7 per cento dei voti e 6 seggi all’Alleanza Verdi Sinistra) rappresenta una controtendenza, ma è drogato dalla presenza nelle liste di Ilaria Salis, l’attivista dei centri sociali detenuta in Ungheria con l’accusa di avere partecipato al pestaggio di alcuni simpatizzanti di estrema destra ungheresi.

L’espressione facciale di Angelo Bonelli in occasione dei commenti televisivi dei risultati, a metà strada fra il pensoso e l’imbarazzato nonostante l’evidente successo, lascia intendere che l’anima propriamente ecologista dell’alleanza ha ben presente che a determinare l’esito favorevole del voto è stato l’afflusso di amanti dello scontro fisico fra fascisti e antifascisti piuttosto che l’afflusso di amanti dell’ambiente.

La reazione degli europei al Green Deal

La spiegazione più lineare dell’insuccesso (solo il gruppo dei liberali ha perso più seggi di quello dei Verdi, il quale è sceso da 74 a 52) è che la maggioranza degli europei è ostile alle direttive ”green” su casa, mobilità e agricoltura, che portano il marchio di fabbrica di un certo ambientalismo ideologico e intransigente.

Sta di fatto che tali direttive sono state approvate grazie soprattutto ai voti dei due principali gruppi del Parlamento europeo, e cioè i popolari e i socialisti, soltanto un po’ annacquate rispetto alle versioni originali licenziate dalla Commissione europea per ripensamenti dell’ultima ora da parte dei popolari che hanno sommato i loro voti con quelli dei conservatori. I popolari non hanno affatto pagato dazio per il loro ruolo nell’approvazione del Green Deal o della strategia Farm to Fork, anzi hanno aumentato i propri seggi (più 10 rispetto al 2019), mentre i socialisti hanno contenuto le perdite (meno 4 seggi rispetto al 2019).

L’insofferenza verso gli ecovandali e Greta Thunberg

Forse nel tracollo elettorale ha contato di più l’insofferenza per gli exploit bislacchi di Ultima Generazione e di Extinction Rebellion, mai del tutto sconfessati dall’ecologismo politico ufficiale. Coi loro blocchi del traffico e coi loro vandalismi contro le opere d’arte questi attivisti hanno messo in allarme i cittadini di tutti i paesi europei, che si sono fatti una certa idea di quale incubo sarebbe vivere in paesi governati da leader ideologicamente in sintonia con gli ecovandali.

Anche lo sguardo accigliato e accusatorio e gli ossessivi slogan apocalittici di Greta Thunberg sono diventati un handicap per le fortune elettorali dei Verdi da quando la ragazzina è diventata una giovane donna, e il meccanismo del senso di colpa dei padri verso i figli si è, com’è logico, affievolito. E pure i “Venerdì per il futuro” degli studenti delle medie superiori, dopo un primo momento di entusiasmo che ha contagiato una vasta platea che va dagli operatori dei media agli ecclesiastici, sono stati derubricati a pretesto per bigiare la scuola e allungare il ponte del week-end.

La spiegazione di Finkielkraut

Ma accanto alle spiegazioni pratiche, politiche e psicologiche del disamore dell’opinione pubblica e degli elettorati per i partiti di ispirazione ambientalista, anzi al di sopra delle stesse, c’è una spiegazione metafisica, teoretica, concettuale che si può riassumere in un pensiero di Alain Finkielkraut riferito all’ecologismo contemporaneo, espresso dal filosofo francese nell’intervista concessa a Tempi in occasione della consegna del Premio Luigi Amicone 2024:

«La preoccupazione per l’essere viene detta nel linguaggio tecnico della dimenticanza dell’essere. Non conosciamo più la natura, ma la biosfera, la biodiversità, il bilancio del carbonio. Bisognerebbe che l’ecologia ridiscendesse sulla terra, che non si preoccupasse più del pianeta, ma di rendere abitabile la terra. Una terra imbruttita, atrocemente imbruttita, non è più abitabile».

Una terra (non un pianeta: per favore restituiamo l’espressione agli astronomi, stiamo parlando di casa nostra) le cui campagne, i cui monti e i cui mari fossero ricoperti di pale eoliche e di pannelli solari sarebbe inabitabile tanto quanto una terra tormentata dal riscaldamento climatico. La trasformazione di montagna, campagna e mare in paesaggi industriali è altrettanto inquinante per le anime di quanto lo sono residui chimici e polveri sottili per i corpi.

Tecnologia vs amore per la propria terra

L’ecologismo mainstream, che domina sia i ministeri dell’Ambiente degli Stati nazionali che gli enti multilaterali, dall’Unione Europea alle Nazioni Unite, si nutre dell’illusione che la tecnologia fornirà tutte le risposte di cui si sente il bisogno per conciliare qualità materiale della vita umana e conservazione dell’ambiente. Niente di più sbagliato: le risposte puramente tecnologiche alla crisi ambientale non funzioneranno, serviranno soltanto a rallentare il saccheggio delle risorse naturali.

Perché tutto ciò che vive possa prosperare e i paesaggi possano continuare a dirci qualcosa occorre l’amore per il luogo della propria nascita, l’attaccamento all’eredità ambientale e comunitaria di cui tanto hanno scritto Roger Scruton e Wendell Berry. Il novantenne scrittore americano che qualche anno fa così diceva in un’intervista ad Avvenire:

«Per amare un luogo e la sua cultura (dando per scontato che la sua cultura sia amabile) è necessario ovviamente conoscerli entrambi. E per conoscerli, è necessario che ci si abiti, facendo causa comune con essi, con la sua comunità di persone e anche con le altre creature che lì vi risiedono, per tutta la nostra vita».

La cappa del darwinismo

Se l’ecologismo di Finkielkraut, Scruton e Berry resta minoritario ed elitario benché i loro messaggi suscitino adesione e commozione, è perché l’ecologismo mainstream non esce dalla cappa del darwinismo. Al centro c’è sempre la sopravvivenza del più adatto, messa a repentaglio da uno sviluppo materiale dell’uomo che non è più sostenibile perché non dà tempo alle risorse naturali di ricostituirsi.

Urgono nuove tecnologie più efficienti di quelle che hanno reso possibile la Rivoluzione industriale, e se quelle già disponibili costano troppo, pazienza: chi non ha i soldi starà al freddo e non viaggerà, mangerà quel che passa il convento e si curerà come può. Se resiste, magari un giorno le tecnologie a impatto zero saranno più economiche, e anche i non benestanti (diminuiti nel frattempo di numero) ricominceranno a consumare.

Meno utilitarismo, più meraviglia

Questa visione panutilitarista/evoluzionista della natura si perde quel che di più bello e ricco di senso si dà nel creato: la magnificenza degli esseri viventi, che eccede le necessità di conservazione e di successo nella selezione delle specie, come scriveva lo zoologo Adolf Portmann nel suo Le forme viventi.

Ha commentato Valentina Flak su Itinera:

«Tale teoria [quella della selezione naturale, ndr] non riesce a dare ragione della varietà delle forme organiche. La realtà delle forme supera l’interpretazione, e l’organismo supera ciò che sotto il profilo della conservazione dell’individuo si richiede alla forma o al comportamento. Molto spesso la forma viene giudicata solo in base alla sua utilità, in funzione del principio dell’adattamento, ma questo è solo il senso più elementare, dice Portmann, per considerarla. Se la vita mirasse soltanto all’utile, essa si manifesterebbe mantenendo un rigore più economico. Mentre la natura “è troppo prodiga”, e si caratterizza per la varietà e il dispendio delle forme, per la ricchezza delle sua manifestazioni. “È nell’abbondanza che vediamo una manifestazione originaria della vita”».

Per non essere stato capace finora di attivare e valorizzare l’attaccamento degli esseri umani al proprio luogo natale e la meraviglia di fronte alle forme viventi che come loro vero scopo hanno quello di mostrarsi nel loro splendore e non quello di far sopravvivere la propria specie (tutto ciò che vive è destinato a morire; ma vivere, anche per brevissimo tempo, è l’unico modo per rifulgere) l’ambientalismo politico va incontro a una sconfitta dopo l’altra, dopo una breve fase di successi cinque-dieci anni fa. Ma soprattutto si rivela inutile quando non controindicato ai fini della conservazione del Creato.

@RodolfoCasadei

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