
I nostri politici non facciano i “notai e gli ingegneri del corpo sociale”. I registri delle unioni civili sono inutili
Pubblichiamo una Nota sull’istituzione del registro delle unioni civili a firma dell’avvocato Giancarlo Cerrelli, Vicepresidente nazionale e Delegato per la Calabria dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani.
La corsa, da parte di alcuni Comuni italiani, all’istituzione dei registri delle unioni civili, ci induce a fare alcune riflessioni. Appare alquanto evidente la natura ideologica e simbolica che ha l’istituzione di tali registri. Le coppie di conviventi, nel nostro ordinamento giuridico, infatti, godono attualmente della maggior parte dei diritti riconosciuti alle coppie coniugate e la fretta con cui si sollecita l’istituzione di tali registri non è giustificata, peraltro, da alcuna urgenza sociale, se non, come detto, dalla valenza ideologica e simbolica del gesto.
L’istituzione di detto registro intende consentire a coppie, che hanno scelto di vivere la loro unione senza voler assumere alcun dovere e alcuna responsabilità innanzi alla società e allo Stato, di godere di alcuni diritti (es. casa, sanità e servizi sociali, trasporti etc.) che sono, invece, concessi dalla legge alle coppie che decidono di contrarre matrimonio.
Il privilegio, invero, del nostro ordinamento per le coppie coniugate avviene, giustamente, perché i coniugi con il matrimonio, contribuiscono a dare ordine alle generazioni, assumendo un impegno decisivo di fronte alla società e allo Stato, con l’assunzione di doveri reciproci tra loro, così come previsto dal codice civile e dalla nostra Costituzione.
Così, non avviene, invece, per le coppie di conviventi, che al contrario rifuggono qualsiasi regolamentazione e riconoscimento del loro rapporto da parte dello Stato, prediligendo, invece, la libertà e l’informalità dell’unione, unite alla rivendicazione della concessione, da parte degli Enti pubblici, di diritti patrimoniali.
Viene da chiedersi quale sia il fondamento della concessione di tali diritti, che si intendono riconoscere alle unioni di conviventi. È forse l’“affetto”? Se la risposta fosse affermativa, sarebbe la prima volta che nell’ordinamento un dato emozionale e soggettivo diventa giuridicamente rilevante e produttivo di effetti. È un dato concettuale ben diverso dagli aspetti costitutivi del matrimonio e della famiglia: è diverso, in particolare, dall’elenco di quei diritti e di quei doveri contenuti negli articoli 143 e seguenti del codice civile, dei quali non a caso si dà lettura sia durante la celebrazione del matrimonio civile, sia dopo la celebrazione del matrimonio canonico.
“Gli affetti – infatti, come afferma un illustre giurista – che attengono alla sfera dei sentimenti, sfuggono al diritto: non possono essere rilevati, quantificati, soppesati, quindi regolamentati. Non è un caso che l’intera disciplina civilistica del matrimonio – ed è tutto dire – ignori totalmente l’elemento affettivo, limitandosi a precisare che dal matrimonio derivano obblighi (e reciprocamente diritti) concreti e verificabili, quali la fedeltà, l’assistenza materiale e morale, la collaborazione nell’interesse della famiglia, la coabitazione (art. 143). Ed anche per ciò che attiene ai figli, il diritto non dice che i genitori hanno il dovere di amare i figli, limitandosi molto più concretamente a precisare che il matrimonio impone ai coniugi l’obbligo di mantenere, istruire ed educare i figli (art. 147): obbligo il cui soddisfacimento è possibile controllare, ad esempio dal giudice. Si può dire che i sentimenti stanno al matrimonio e alla famiglia come il gusto sta all’alimentazione. Sono un aiuto e un formidabile sostegno, ma non ne sono essenzialmente costitutivi, né ne rappresentano il fine principale: nessun medico consiglierebbe a un paziente di alimentarsi secondo il gusto (e basta), e non secondo le esigenze del suo organismo; allo stesso modo colui che dovrebbe essere il medico del corpo sociale (e cioè, secondo Platone, il politico) non può pensare di costruire un ordine sui sentimenti e sugli affetti, legando e sciogliendo istituti giuridici in funzione di essi; deve invece esigere assunzione di impegni – anche definitivi, secondo la natura del rapporto – e forte senso di responsabilità”.
Per tali motivi, è da ritenere inopportuno e non conforme a giustizia, concedere la titolarità di eventuali diritti a chi deliberatamente decide di non assumere pubblicamente alcun dovere, privilegiando una forma liquida di rapporto, che danneggia la stabilità e l’equilibrio della società. Tali ragioni, tuttavia, non sono superabili neppure da un presunto intento di solidarietà nei confronti di queste unioni; la solidarietà, infatti, non può essere usata come pretesto per distrarre risorse alla cellula base della società, che è la famiglia fondata sul matrimonio.
Il reale motivo che, invero, spinge alcuni Comuni ad istituire tali registri è quello di suscitare quell’humus culturale e sociale, propizio a creare un modello alternativo di famiglia, comprendente le unioni tra persone omosessuali, che possa così spingere l’acceleratore a favore di una legislazione nazionale in tal senso.
Non si tiene conto, però, che alle unioni tra persone omosessuali, tuttavia, manca una vera e propria funzione sociale; esse sono, infatti, strutturalmente sterili e non hanno il fine che ha il matrimonio, cioè quello di dare ordine alle generazioni.
Nell’attuale contesto di inverno demografico, che, anche per ragioni oggettive, rischia di offuscare la solidarietà generazionale, va data, invece, primaria rilevanza alla famiglia, in cui e per cui gli uomini e le donne attuano normalmente la solidarietà generazionale. Una politica che persegue il bene umano oggettivo deve pertanto in primo luogo aver riguardo a che siano garantiti e promossi i diritti umani fondamentali afferenti alla famiglia (diritto al matrimonio, diritto alla generazione), nonché adempiuti i doveri fondamentali (soprattutto i doveri di cura e di educazione). Tali diritti e doveri fondamentali sono solennemente affermati anche dalla Carta costituzionale. Essi, tuttavia, non ricevono un’adeguata tutela dalla legge ordinaria. La famiglia non è adeguatamente sostenuta sul piano economico; addirittura, essa è penalizzata sotto il profilo fiscale rispetto alla convivenza. La famiglia che accoglie i figli, anche nell’interesse del bene oggettivo generazionale, non riceve il sostegno necessario per la sua sopravvivenza. Il bene umano oggettivo, individuale e generazionale, è vilipeso da una informazione massmediatica orientata in senso evidentemente edonistico.
È da rilevare, tra l’altro, che l’istituzione di tali registri si risolverebbe, anzi, nella sottrazione ingiusta di risorse alla famiglia fondata sul matrimonio, con violazione grave del principio di uguaglianza, a beneficio di soggetti singoli che non si impegnano ad assumere, entro e grazie alla famiglia, una responsabilità generazionale.
Una disciplina specifica a favore delle coppie di fatto, anche omosessuali, tra l’altro, accentua la tendenza, sempre più aggressiva, che rende ogni ora più liquidi, inconsistenti, relativi e privi di un autentico senso di responsabilità i rapporti sociali e interpersonali, così minando profondamente la coesione sociale del nostro popolo.
Quale coppia sceglierà ancora di contrarre matrimonio e così formare una famiglia, se basterà iscriversi al registro comunale, che non richiede l’assunzione di alcun dovere, per ottenere dal Comune i medesimi diritti e vantaggi riservati oggi alle coppie coniugate?
Gli amministratori e i politici, pertanto, non possono atteggiarsi a meri “notai del corpo sociale”, prendendo atto e ratificando le richieste e i desideri dei consociati; come neppure possono cedere alla tentazione, sempre latente, di atteggiarsi ad “ingegneri del corpo sociale”, creando forme originali di convivenze – a cui la nostra tradizione giuridica, peraltro, ha ritenuto opportuno non dare quella rilevanza che prevede per il matrimonio – ma hanno l’obbligo di valutare e discernere ciò che orienta la società al bene comune, quest’ultimo, obiettivo, oggi, non sempre chiaro a chi ha responsabilità sociale e politica.
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