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I due preti giusti

Storia di due impavidi sacerdoti che dopo l’8 settembre ’43 salvarono centinaia di ebrei dalle mani di nazisti e fascisti. E che, grazie all’aiuto di povere famiglie di contadini, diedero loro conforto e rifugio

Emanuele Boffi
21/02/2016 - 2:00
Società
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san-dalmazzo

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Metà febbraio, Borgo San Dalmazzo (Cn). Qui un piccolo gruppo di ebrei – qualcuno arriva da Milano, qualcun altro da Torino, qualche locale – s’è ritrovato alla stazione ferroviaria per commemorare i ventisei ebrei che il 15 febbraio 1944 furono deportati nel campo di concentramento di Fossoli e poi in Germania. Orazioni e ricordi di chi oggi vede come le traiettorie della Storia abbiano intersecato le proprie storie intime e familiari. C’è chi racconta la vicenda dei vicini di casa, chi di conoscenti, chi di nonne e nonni che in quegli anni fuggirono dai nazisti, ma anche di parenti – ebrei fascisti – che ai “neri” si consegnarono spontaneamente («“siamo italiani, siamo fascisti, che mai potranno farci?”, si chiedevano ingenuamente»).

Alla stazione di Borgo ci sono tre vagoni rossi. Sono piccoli, stretti e chiusi ermeticamente: anche l’aria era un lusso per chi era trattato peggio di una bestia. Il rabbino intona la preghiera. È un momento semplice e dignitoso, ma non si prega solo per gli ebrei. Vittorio Bendaud, che coordina il Tribunale rabbinico del Centro Nord Italia, ci tiene che due parole e una preghiera di ringraziamento siano spese per due sacerdoti cattolici: don Raimondo Viale e don Francesco Brondello. I loro nomi compaiono tra i giusti delle nazioni allo Yad Vashem di Gerusalemme. Questa è la loro storia.

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Dov’erano tutti gli altri?
Quando rammentava la sua infanzia, don Viale amava ricordare che a casa sua si viveva di patate e polenta. «Forse è stato un dono di Dio la povertà in cui sono cresciuto. È nell’infanzia che ho imparato a resistere». Figlio di uno spaccapietre, Raimondo nacque nel 1907 a Limone Piemonte, «in una zona piena di vipere». Ordinato sacerdote nel 1930 divenne parroco a Borgo San Dalmazzo sei anni dopo. Carattere fumantino e poco incline ai compromessi, dal pulpito il “don guastafeste” non risparmiava critiche al regime fascista. Per questo, il 2 giugno 1940, per aver definito in un’omelia la guerra «un’inutile strage», fu arrestato, condotto nel carcere di Cuneo, picchiato, giudicato colpevole, mandato al confino ad Agnone in Molise, da cui tornò solo il 20 settembre 1941.

Il 25 luglio e l’8 settembre 1943 sono due date importanti per la storia d’Italia, ma per don Raimondo fu più significativo ciò che accade pochi giorni dopo, il 12 settembre. Dalla Francia, infatti, iniziarono ad arrivare a piedi centinaia di persone. Fra di loro c’erano i soldati italiani della IV armata e gli ebrei che provenivano dal centro di raccolta di Saint Martin Vésubie. Erano per lo più polacchi, francesi, tedeschi; qualche ungherese, austriaco, belga. C’erano molte famiglie con bambini che trascinavano pochi stracci e un tozzo di pane. Il 18 settembre il comando tedesco delle SS rese noto che, entro sera, tutti gli ebrei avrebbero dovuto presentarsi in caserma: «Trascorso tale termine – recitava il dispaccio – tutti gli stranieri che non si saranno presentati verranno immediatamente fucilati». La medesima sorte sarebbe toccata «a coloro nella cui abitazione detti stranieri verranno trovati».

Saranno 349 quelli che si consegneranno e che il 21 novembre saranno caricati sui vagoni in partenza da San Dalmazzo verso la Francia, e di qui poi ad Auschwitz (ne torneranno solo 9). Il 4 dicembre ’43 il campo di concentramento di Borgo passò nelle mani fasciste. Dalla stazione, il 15 febbraio partirono i ventisei ebrei di cui vi abbiamo detto (ne sopravvissero solo due). E tutti gli altri? Che fine avevano fatto le altre centinaia di ebrei che erano giunte in Italia?

Il funerale due anni dopo
Come tutti gli abitanti della zona, don Viale aveva assistito all’arrivo delle famiglie ebree e dei soldati italiani sbandati. Per lui, aiutare quei poveretti fu una semplice questione di carità cristiana. Confortato dal sostegno del cardinale di Torino, Maurilio Fossati, decise così di darsi da fare per trovare loro rifugio. Rischiò letteralmente la pelle, don Raimondo. I nazisti avevano già fatto vedere di cosa erano capaci. Per rappresaglia il 19 settembre a Boves avevano incendiato le case e ucciso 24 persone tra cui il parroco, don Giuseppe Bernardi, e il giovanissimo vicecurato, don Mario Ghibaudo, catturato mentre cercava di mettere in salvo il Santissimo. Il corpo martoriato di don Mario finì proprio nella canonica di don Viale che, di notte, con l’aiuto di don Brondello e contro gli ordini nazisti, lo trasportò nel cimitero per dargli degna sepoltura. Il funerale di don Mario fu celebrato solo due anni dopo, il 19 settembre 1945. Don Ghibaudo è uno dei “Dieci” di don Didimo Mantiero e il 31 maggio 2013 è iniziato il processo di canonizzazione.

Nemmeno uno fu catturato e ucciso
Lo scrittore-partigiano Nuto Revelli ha raccolto in un libro la testimonianza di don Viale. Si intitola Il prete giusto (Einaudi, 1998) ed è il racconto della vita del nostro eroe. Eroe che, però, non amava troppo vantarsi delle proprie gesta. «Il mio – raccontò – era un lavoraccio da esaurire un elefante. Ero imprudente come uno scemo». Per fortuna, don Raimondo non era l’unico scemo della zona. Bisogna cercare di immaginarsi cosa significasse per dei poveri contadini con tante bocche da sfamare prendersi il rischio di dare rifugio a persone che nemmeno parlavano l’italiano. Nasconderle per quasi due anni, condividendo con loro quel poco che si poteva racimolare durante i rigidi inverni del ’43 e del ’44. Quella rete di famiglie non tradì nessuno. Nemmeno uno degli ebrei che furono soccorsi dagli amici di don Viale fu catturato e ucciso.

Gli ultimi mesi di guerra e gli anni successivi non furono per don Viale meno tribolati. Confortò negli ultimi momenti, a rischio di fare una brutta fine, i quattordici partigiani catturati e fucilati il 2 maggio ’44 nella caserma di Tetto Gallotto. Terminata la guerra, si spese invano perché i partigiani risparmiassero una spia fascista, Ettore Salvi, che fu giustiziata il 12 febbraio ’46 a Cuneo. Don Raimondo rimase sempre un irregolare. Antifascista ai tempi del fascismo, anticomunista nel primo dopoguerra («il comunismo è una dittatura militaresca»), insofferente verso ogni autorità, negli anni Settanta fu sospeso a divinis, straniero in quella stessa Chiesa che tanto amava. Poi, nella primavera del 1980 il riconoscimento di giusto, solo quattro anni prima della sua morte, il 25 settembre 1984. La piazza antistante la caserma, oggi una scuola, porta il suo nome.

Fortunato? No, miracolato
Don Francesco Brondello nacque a Borgo San Dalmazzo l’8 maggio 1920. Lo chiamavano il “prete volante” o il “prete scalatore” per le sue insuperabili doti in montagna. Quando arrivarono gli ebrei nel settembre del ’43 anche lui aiutò, brigò, si attivò per portare cibo e lettere («facevo il portalettere degli ebrei», dirà una volta). Due sorelline ebree, Chaya e Gitta Kantoriwicz, che oggi vivono a Chicago, ricordano ancora quando giunse nel loro nascondiglio. Si presentò con una macchina fotografica, scattò due foto, tornò il giorno dopo con i documenti falsi. Altri hanno ricordato che fu lui che, sempre a rischio di cattura, girò di baita in baita, di casolare in casolare, solo per ricordare loro di festeggiare Yom Kippur. Don Brondello rimase a Valdieri fino al termine del conflitto perché, spiegava, «un sacerdote non abbandona il suo posto, il suo dovere». Ma la pagò cara. Arrestato dai fascisti nel 1944 fu imprigionato a Cuneo. Era stato prelevato da due ufficiali che, raccontò una volta, mentre «cantavano a tutta forza con rabbia le loro canzonacce: “Morte, morte a papa Pacelli / siamo rinati a libertà”», lo condussero fino in caserma. Qui gli misero «una bomba a mano in bocca», lo picchiarono, lo torturarono. Ma don Francesco non parlò, non tradì. Disse solo che lui la pensava come il Buon Samaritano: non si chiede la carta d’identità al bisognoso. Fu solo grazie all’intervento di una donna, amante del capo delle Brigate Nere, che ebbe salva la vita. «La Bibbia – spiegò – ci racconta la storia di Rachav, la donna che a Gerico prima nascose e poi fece fuggire gli esploratori inviati da Giosuè. Era solo una prostituta ma aveva intuito che “il Signore vostro Dio è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra” e diventò uno strumento di un disegno divino. E quella era una poveretta, l’amante di un brigante feroce, ma ebbe pietà e si diede da fare per salvare un sacerdote».

Don Francesco ne passò davvero di tutti i colori. Ma a chi gli chiedeva se si ritenesse fortunato, rispondeva piccato: «Fortunato? No, io non userei questa parola. Se uno è in pericolo, in una situazione, e riesce a salvarsi, può trattarsi di fortuna e può dire a se stesso “questa volta mi è andata bene”. Ma a me capitò di scampare alle pallottole del militare tedesco a Nizza, e poi alla caduta sulla montagna, e di essere catturato dalle camicie nere ma di esserne poi rilasciato, e il rastrellamento a Valdieri non fece vittime… Quante volte sono stato miracolato? No, non credo possa trattarsi di un caso fortunato, credo proprio che il Signore abbia voluto proteggermi e salvarmi. Ma non c’era da aver paura, trovavo consolazione e coraggio nella promessa del Vangelo: “Chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà”».

Noi esistiamo grazie a lei
Quando il 2 settembre 2004 fu riconosciuto giusto tra le nazioni con una cerimonia nella Sinagoga di Cuneo, si commosse fino alle lacrime quando rivide Chaya e Gitta, le due ragazzine cui aveva scattato una fotografia tanti anni prima. Si presentarono con le loro famiglie, mariti, figli e nipoti, una cinquantina di persone, una piccola comunità di scampati all’orrore: «Don Francesco, noi esistiamo solo grazie a lei».

È morto una domenica del 2015. Era il 15 febbraio, lo stesso giorno in cui, più di settant’anni prima, tre carrozze rosse erano partite per Auschwitz. 

Foto Guido Hassan

Tags: Auschwitzfascistinazistiyad vashem
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