Hannah Arendt, l’ebrea laica che confidava nel «miracolo» perfino nel secolo della Shoah e del pensiero ateo
Il successo del film Hannah Arendt di Margarethe von Trotta sta superando ogni aspettativa. Programmato inizialmente nei cinema italiani per due soli giorni (27 e 28 gennaio, memoria della Shoah), continua a essere replicato in tutto il paese grazie alle richieste e all’iniziativa del pubblico. Riproponiamo questo articolo sulla filosofa tedesca-statunitense apparso nel numero di marzo 1997 di Tracce, mensile di Comunione e Liberazione.
Nel 1947, in una lettera all’amico Kurt Blumenfeld, capo di una organizzazione sionista con cui Hannah si era attivamente coinvolta, prima a Berlino favorendo la fuga di ebrei e di oppositori al nazismo e poi a Parigi organizzando il trasferimento di giovani della comunità ebraica in Palestina, scrive: «Io in realtà sono molto felice, perché non si può andare contro la propria vitalità naturale. Il mondo, così come Dio l’ha creato, mi sembra buono». È all’apparenza paradossale che una filosofa ostinatamente laica riecheggi le parole del libro della Sapienza: «Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per la vita; le creature del mondo sono sane, in esse non c’è veleno di morte, né gli inferi regnano sulla terra, perché la giustizia è immortale». Il carattere fiducioso di Hannah è tanto più miracoloso se si tiene conto che questo giudizio viene espresso al cospetto dell’immane tragedia che aveva appena strappato dal mondo sei milioni di ebrei.
Il “tipo ebraico”
Nonostante la catastrofe, nell’ebrea Hannah Arendt resiste la certezza del «miracolo» come «stoffa della realtà», come il fondo azzurro del cielo che non può essere cancellato da nessun uragano (e che uragano era stato il nazismo!). Questa attitudine realista e positiva è, a giudizio della Arendt, anche il tratto caratteristico di una «sorta di “tipo ebraico”». Un “tipo” che in una lettera del 7 settembre 1952 al filosofo Karl Jaspers delinea così: «È un tipo umano in cui c’è molto di positivo, e cioè tutto ciò che io faccio rientrare nel concetto di “qualità dei paria” e che Rachel (intellettuale ebrea berlinese di epoca romantica, ndr) chiamava “le vere realtà della vita: amore, alberi, bambini, musica”. C’è uno straordinario sentimento d’insofferenza delle ingiustizie; domina un’assoluta mancanza di pregiudizi e una grande magnanimità».
Come ha notato Alessandro Dal Lago, curatore delle traduzioni italiane degli scritti arendtiani, l’atteggiamento filosofico della Arendt riposa sull’assunto che il mondo «non sia una proiezione del pensiero, ma una datità irriducibile». Di qui «l’esaltazione del common sense» (da intendere nella sua originale accezione di «senso condiviso della realtà») contro «il postulato filosofico di un io puro, mero artificio retorico, una robinsonata (da Robinson Crusoe, ndr), uscita dalla condizione comune dell’esistenza» (Dal Lago) e tradimento della ragione frutto di una storia in cui «la realtà e la ragione umana hanno sciolto l’alleanza».
In un saggio sull’età moderna la Arendt scrive: «Nella filosofia e nel pensiero moderni, il dubbio occupa la stessa posizione centrale che occupò per tutti i secoli prima il thaumazein dei greci, la meraviglia per tutto ciò che è in quanto è» (Vita activa). Tale pregiudiziale sospensione dell’assenso sulle cose sembrerebbe all’origine anche di quella immoralità che la Arendt rimproverò ad esempio agli intellettuali tedeschi della sua generazione, da Heidegger a Adorno, che tentarono di ingraziarsi il regime nazista («Tra gli intellettuali l’allineamento – Gleichschaltung – era la regola, mentre non avveniva in altri ambienti. E non l’ho mai dimenticato». La lingua materna).
Scrivendo la biografia di Rachel Varnhagen (1771-1833), intellettuale ebrea protagonista della Berlino romantica (nel cui salotto si riunivano personalità del rango dei fratelli von Humboldt e August e Friedrich von Schlegel) Hannah Arendt osserva: «L’autonomia dell’uomo diventa vittoria delle possibilità che respinge ogni realtà. La realtà non può portare niente di nuovo, la riflessione ha già anticipato tutto». Dove Rousseau appare come il prototipo del «ricordo malinconico» che è «lo strumento migliore per dimenticare del tutto il proprio destino» e in cui «il potere e l’autonomia dell’anima sono assicurati. A prezzo però della verità che, senza realtà, realtà condivisa con altri uomini, perde ogni senso». Ecco allora la fondamentale slealtà dell’intellettuale moderno: «I fatti reali non mi tangono proprio» scrive Rachel a Veit «perché, che siano veri o no, li si può negare».
Anche il concetto di “secolarizzazione” assume agli occhi della Arendt un contenuto affatto diverso da quello comunemente inteso. «A minare la fede cristiana non fu l’ateismo del XVIII secolo o il materialismo del XIX (…) ma piuttosto l’atteggiamento di sfiducia di uomini genuinamente religiosi, agli occhi dei quali il contenuto e la promessa tradizionali del cristianesimo erano diventati “assurdi”». I responsabili vanno cercati all’interno della stessa tradizione religiosa. «Comunque si voglia intendere nell’uso corrente la parola “secolare”, storicamente non può essere fatta coincidere con l’essere-nel-mondo; a ogni modo l’uomo moderno non guadagnò questo mondo quando perse l’altro mondo, e neppure la vita ne fu favorita. Egli fu proiettato in se stesso, proiettato nella chiusa interiorità dell’introspezione, dove tutt’al più poteva sperimentare i processi vuoti del meccanismo mentale, il suo gioco con se stesso». Profezia straordinaria: «È perfettamente concepibile che l’età moderna – cominciata con un così eccezionale e promettente rigoglio di attività umana – termini nella più mortale e nella più sterile passività che la storia abbia mai conosciuto».
Si provi a rileggere il bilancio di una vita di due illustri intellettuali italiani, il laico Norberto Bobbio (De senectute) e il cattolico Carlo Bo (intervista al Giornale, 12 febbraio). E poi li si compari a questo brano della Arendt: «La speranza induce a esplorare il mondo alla ricerca di una piccola, minuscola crepa che potrebbero aver lasciato rapporti e legami; una fessura – sia pur sottilissima – che aiuti a ordinare e centrare il mondo indefinito perché l’inatteso desiderato dovrà infine uscirne fuori come felicità definitiva. La speranza porta alla disperazione se la convinzione non fa trovare nessuna fessura, nessuna possibilità di essere felice. Questa è la situazione di Rahel a ventiquattr’anni; non ha ancora vissuto nulla, in una vita che non ha ancora contenuto personale. “Sono sfortunata; non mi lascio convincere del contrario; il che ha un brutto effetto”. La convinzione diventa definitiva; non si preoccupa del fatto che continui a sperare nella felicità per quasi tutta una vita; Rahel sa in segreto che in tutto quello che accadrà, la condizione della sua giovinezza aspetta solo di essere confermata».
Postilla apparsa in calce a questo articolo: «Come siamo d’accordo con Hannah Arendt! … Forse perché da cristiani cerchiamo di essere partecipi della vita di una eredità ebraica?». Naturalmente l’autore di questa postilla è don Luigi Giussani, all’epoca capo di Cl e “revisore-editore” di Tracce.
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1 commento
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pensiero filosofico bello, ma on si evinceva dal film!!! carmen