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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
Convocare un consiglio dei ministri, preparare un ordine del giorno, rileggere e apportare modifiche a un testo di legge, coordinare un intervento del capo del governo, riunire i responsabili di dipartimento, il tutto stando a casa propria o in qualsiasi altro luogo, dotato di supporti e tecnologie digitali, ma fuori da Palazzo Chigi. In poche parole… governare in smart working. Almeno uno o due giorni alla settimana. È una sfida da economia 2.0 quella che si appresta a lanciare la presidenza del Consiglio sotto la guida di Paolo Gentiloni, che a partire da novembre di quest’anno introdurrà nei suoi uffici un modello di lavoro agile e a distanza già sperimentato da qualche anno nelle più grandi aziende italiane e da multinazionali con sede in Italia: Unicredit, Vodafone, Axa, Fastweb, Nestlè, Heineken, Barilla, American Express solo per fare qualche nome.
Il ragionamento alla base di questa rivoluzione è il seguente: se i grandi gruppi hanno ottenuto attraverso lo smart working risultati impensabili in termini di risparmi di costi e aumenti di produttività – questo dicono le ultime rilevazioni – perché non provare a fare la stessa cosa nella pubblica amministrazione, partendo dalle stanze dei bottoni del potere esecutivo?
La nuova filosofia del lavoro agile, fondata sulla capacità di organizzare il proprio tempo e sull’orientamento ai risultati, sta già sovvertendo i paradigmi tradizionali nel settore privato. E ora viene sposata in pieno dal governo italiano in una fase in cui trova come sponda la riforma Madia della pubblica amministrazione (obiettivo 10 per cento di dipendenti in smart working entro il 2018) e la nuova normativa sul lavoro agile che sta per essere varata dal Parlamento. L’esperimento pilota partirà grazie a una collaborazione scientifica tra la presidenza del Consiglio e il Politecnico di Milano che prevede un periodo di rodaggio che serve per impostare una modalità inedita per l’amministrazione centrale dello Stato (attualmente, si trovano significativi esempi di lavoro a distanza solo in alcuni comuni come per esempio Torino e Trento).
L’Osservatorio sullo smart working del Politecnico di Milano, che sotto la direzione scientifica del professore Mariano Corso è diventato il think tank del lavoro agile, oltre che punto di riferimento di decine di imprese che si sono convertite con rapidità impressionante al nuovo modello, seguirà la presidenza del Consiglio in questo progetto che vedrà coinvolte circa 400 persone tra dirigenti, quadri e impiegati.
Vuoi vedere che una nuova organizzazione del lavoro all’interno dei palazzi del governo riuscirà laddove hanno fallito i tentativi di spending review?
Ridurre il clima di sospetto
Corso non si sbilancia su previsioni di risultati, ma spiega che «lo smart working è sicuramente un buon affare per i conti pubblici». Con la sola riduzione dei costi di mantenimento degli spazi si potrebbero ottenere notevoli benefici. Ma questo è solo un aspetto, poiché la cosa più importante, a suo avviso, è che si può creare un miglioramento della produttività che si traduce in un aumento della qualità dei servizi. La vera scommessa che Corso spera di vincere è «ridurre quel clima di sospetto e pregiudizio che sta avvelenando i rapporti tra politica, opinione pubblica e parti sociali. Con lo smart working è possibile introdurre anche nella pubblica amministrazione il principio della valutazione basata sui risultati e sui livelli di servizio più che sul presenzialismo o sull’adempimento di procedure burocratiche. Questa cultura nuova, molto più dei tornelli e dei controlli ossessivi sulla presenza può scardinare comportamenti scorretti irresponsabili tristemente diffusi tra manager e dipendenti pubblici». In altre parole, se l’esperimento funziona, sarà più facile isolare e sanzionare i furbetti.
Un approccio che sembra spostare il focus più sul recupero dell’efficienza che sui benefici in termini di welfare (conciliazione lavoro-vita privata). Ma è proprio questo il punto di svolta che negli ultimi anni ha consentito la diffusione dello smart working nel mondo del lavoro subordinato (poiché nell’universo di free lance, liberi professionisti, collaboratori e precari è la normalità).
Un fenomeno in crescita
Fino a quando le aziende lo hanno considerato alla stregua di un benefit da concedere al dipendente, il successo è stato scarso. La svolta è arrivata quando si è compreso che attraverso un’organizzazione del lavoro più flessibile si può ottenere un miglioramento dei livelli di efficienza che si rispecchia direttamente nei conti e nel clima aziendale.
Oggi un terzo dei grandi gruppi fa smart working con oltre 250 mila lavoratori coinvolti, una quota che è quasi raddoppiata tra il 2015 e il 2016. Lo stesso Osservatorio stima che sono 5 milioni i potenziali smart worker in Italia i quali, a regime, potrebbero produrre benefici al sistema paese per 27 miliardi all’anno in termini di maggiore produttività e una riduzione dei costi pari a 10 miliardi. Va detto, però, che la situazione è ben diversa tra le piccole e medie imprese per le quali la diffusione di progetti strutturati di lavoro agile è ferma al 5 per cento. Uno scarso interesse che si spiega con la predominanza di un modello padronale che predilige il controllo “fisico” del dipendente.
Due giorni la settimana
La cultura, anzi il culto, della presenza in ufficio è duro da abbattere. Anche le realtà più innovative prima di adottare un modello fondato sulla discrezionalità e la flessibilità in termini di spazio e di tempo, hanno dovuto investire nei capi, cioè formare i top manager e i responsabili dei team per motivarli a organizzare e a distribuire compiti da svolgere a distanza, a fissare obiettivi chiari e a valutare i risultati senza pregiudizi.
«Occorre sfatare l’illusione del controllo creando i presupposti per un rapporto di fiducia tra il dipendente e il suo capo», spiega Maurizio Di Fonzo, direttore risorse umane, organizzazione e change management di Axa Italia, gruppo assicurativo con 1600 dipendenti. «Siamo partiti da un anno e in questa prima fase abbiamo offerto la possibilità di fare smart working per due giorni alla settimana a oltre il 50 per cento dei dipendenti che hanno i requisiti, entro fine anno lo estenderemo al 100 per cento del personale». Come l’hanno presa in azienda? «Il tasso di adesione è stato del 62 per cento e il gradimento è altissimo. In più, raccogliamo i primi risultati in termini di maggiore efficienza: ad esempio, il 41 per cento dei manager dichiara che già nel primo periodo di lavoro agile la loro produttività risulta migliorata».
Inizio di un percorso
Una delle aziende che in Italia ha fatto da apripista è Barilla, partita nel 2013 con un progetto che punta a coinvolgere la totalità dei dipendenti (8.000 in tutto) entro il 2020. «Lo smart working è il superamento del concetto taylorista per cui produco solo in un determinato luogo e momento. Il lavoro ad alto livello di conoscenza, insieme con la digitalizzazione dei processi produttivi sta rivoluzionando il concetto di spazio e di tempo», dice Alessandra Stasi, responsabile organizzazione e sviluppo del personale dell’azienda di Collecchio, «dai nostri sondaggi interni emerge una soddisfazione pari al 99 per cento. Il miglior bilanciamento tra vita privata e lavorativa è emerso come il principale beneficio. È stato confermato, inoltre, un incremento di produttività e qualità del lavoro e minori costi per assenze, permessi e viaggi».
Un altro incentivo per le aziende è la prospettiva di ridurre i costi degli immobili. Il gruppo Unicredit, per esempio, ha avviato nel 2008 un vasto programma di riorganizzazione delle proprie sedi che ha offerto l’occasione di ripensare il modo di gestire e vivere gli ambienti di lavoro. «Con l’implementazione dello smart working si percepisce una generale soddisfazione delle persone che vivono spazi più belli e meglio utilizzati», dice Salvatore Greco, responsabile real estate di Unicredit, «il progetto ha avuto successo e lo stiamo estendendo velocemente. Ad oggi sono circa 8.000 i colleghi che possono lavorare con questa modalità da Milano, Torino, Bologna, Verona, Monaco, Francoforte e Belgrado con un programma di adozione su più ampia scala entro la fine del 2019».
Di fronte a questi risultati che cosa ne pensa il sindacato? Lo abbiamo chiesto alla principale confederazione sindacale, la Cgil. Tania Scacchetti, segretario generale con delega al mercato del lavoro, riporta il focus sulla conciliazione lavoro-vita privata spiegando che lo smart working può funzionare nel lungo periodo se si crea un mix equilibrato tra esigenze di efficienza dell’azienda e miglioramento della qualità del lavoro e della vita del dipendente.
«Siamo solo all’inizio di un percorso e ci sono almeno altri due punti su cui riflettere», aggiunge Scacchetti, «è fondamentale che nel testo di legge in approvazione al Senato venga disciplinato il diritto alla disconnessione, per evitare il rischio burn out che si produce quando i lavoratori sono continuamente sotto pressione. Inoltre esistono mansioni per le quali lo smart working è inapplicabile, ebbene nelle aziende che adottano questo modello bisognerebbe avviare politiche di conciliazione alternative per evitare discriminazioni tra dipendenti. E questo è più facile che accada se lo smart working rientrerà nella contrattazione collettiva delle varie categorie».
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In qualche modo Marco Biagi lo aveva previsto. Teorizzando che un giorno non avrebbe avuto più senso la suddivisione tra lavoro subordinato e autonomo, in termini di postazione, orario, remunerazione, il giuslavorista ucciso dalle nuove Brigate rosse aveva previsto il momento in cui anche un dipendente (pubblico o privato e con regolare contratto) avrebbe potuto svolgere le sue mansioni a prescindere da un luogo fisico.
Intervistato da Tempi, Maurizio Sacconi, ex ministro del Lavoro e presidente della Commissione Lavoro del Senato, ci tiene a ricordare proprio la figura di Biagi (di cui ricorrono i quindici anni dalla morte) nel momento in cui sta per essere varato dal parlamento il nuovo ddl sul lavoro autonomo e flessibile. Il disegno di legge, tra l’altro, disciplina lo smart working per la prima volta in Italia (il testo, approvato dalla Camera, è tornato al Senato per il via libera finale) facendo un grande salto in avanti rispetto alla vecchia normativa sul telelavoro. «Il mondo – spiega – sta andando verso la direzione in cui tutti i prestatori di opera saranno slegati da un luogo fisico, ma ci vorrà ancora tempo prima che lo spirito di questo nuovo approccio venga recepito in pieno dal legislatore e abbatta barriere ideologiche».
Sacconi sa bene che il tema tocca nervi scoperti e secoli di appiattimento sul modello fordista dell’impresa, su cui si fonda anche tutto l’impianto lavoristico del diritto italiano. Per questo, nonostante ne sia stato il relatore, ritiene che nel suo iter parlamentare il ddl «abbia fatto prevalere una separazione ancora troppo rigida tra l’occupazione autonoma e quella dipendente». Ma il testo finale è frutto di un compromesso tra diverse forze politiche («incredibile come chi nella sfera dei valori si proclami progressista per i diritti di famiglie di fatto e gay, poi diventi improvvisamente conservatore quando si tratta di lavoro…») e comunque, per Sacconi, conserva il pregio di «rappresentare una soft regulation», che rinvia diversi aspetti dei nuovi rapporti di lavoro agile e a distanza ad accordi tra le parti.
Per Sacconi uno dei punti da chiarire e migliorare, magari anche in fase di attuazione, è quello della sicurezza. «Non tutti gli aspetti relativi alla copertura dei rischi di infortuni sono stati sviscerati. A mio avviso, bisogna evitare che si creino rigidità. L’Inail dovrebbe recepire quello che le parti decidono anche in questo ambito e farsi carico di una copertura complessiva della prestazione lavorativa a prescindere dal luogo in cui viene eseguita».
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Per Monica Fabris, sociologa esperta di psicologia dinamica e presidente di Episteme, istituto di ricerca e consulenza strategica, lo smart working si presenta anche come una sfida, perché apre alcuni fronti nuovi. Il primo è quello delle ricadute sulla vita, sulle relazioni e sull’organizzazione di spazi e tempi con cui ancora non ci siamo confrontati. «Lavorare da casa o da qualsiasi altro luogo – dice a Tempi – può ad esempio aumentare la sensazione di non staccare mai completamente, perché sancisce la promiscuità tra ambiente domestico e ambiente lavorativo, trasformando di fatto ogni dove in un potenziale ufficio. Inoltre, all’aumentare del desiderio di essere performativi e produttivi può corrispondere un aumento delle ore lavorate, dunque un peggioramento del work-life balance».
Ma la vera rivoluzione ancora non misurata riguarda le ricadute interne alle mura domestiche. La semplice presenza in orario tradizionalmente “insolito” di uno o di entrambi gli adulti in casa ha sicuramente degli effetti sugli equilibri costruiti dai membri della famiglia: figli, nonni, partner, eccetera.
Lo smart working chiede che la casa sia anche un po’ ufficio, andando a modificare gli spazi condivisi, imponendo orari di silenzio e altro ancora. Tutti gli appartenenti alla famiglia saranno coinvolti in questo processo che li vuole di fatto nella vita, oltre che nel lavoro, più “intelligenti” e più “agili”. Infine, lo smart working dovrebbe trasformarsi in un’occasione per “redistribuire” i compiti domestici e di cura (cucinare, fare la spesa, occuparsi dei figli, ecc.), sia che a lavorare da casa sia l’uomo che la donna, o infine entrambi. «Il peggiore augurio che si possa fare all’esperimento dello smart working è che si trasformi in uno strumento di conciliazione per sole donne».
Foto smart working da Shutterstock
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