«Gli ospedali in Venezuela sono simili a campi di sterminio»
«Gli ospedali? Sono diventati simili a campi di sterminio». Le parole della dottoressa Dora Colomenares, docente e chirurgo presso l’ospedale universitario di Maracaibo, un tempo il cuore della ricca industria petrolifera del Venezuela, sono durissime e suonano esagerate. Che la situazione del paese sudamericano distrutto dalle politiche scellerate di Hugo Chavez prima, e Nicolas Maduro poi, sia disastrosa è cosa nota: le medicine sono quasi introvabili, decine di migliaia di medici sono emigrati, gli ospedali stentano a funzionare per la mancanza di acqua ed elettricità, malattie un tempo debellate sono tornate a falcidiare la popolazione. Nonostante questo, il paragone stona. Eppure bisogna leggere la testimonianza di donne come Isneudy Romero per capire lo stato d’animo del chirurgo.
«L’HANNO LASCIATO MORIRE COME UN CANE»
La giovane di 27 anni ha passato un’estate drammatica. Suo padre, Antonio Romero, 53 anni, un passato decennale come impiegato in un ministero venezuelano, si è dovuto operare allo stomaco in estate. È andato tutto bene ma una volta rientrato a casa ha sviluppato un’infezione. Non trovando gli antibiotici per curarlo, la figlia l’ha riportato all’ospedale di Maracaibo, dove i medici le hanno detto che necessitava di una seconda operazione. Sfortunatamente, mancava l’energia elettrica e il generatore non funzionava. L’operazione è stata rimandata a data da destinarsi, ma per la carenza di antibiotici, che secondo un’indagine governativa non sono nella disponibilità dell’88 per cento degli ospedali, l’uomo è morto.
La famiglia, non potendosi permettere il lusso di una camera mortuaria e non trovando neanche una bara disponibile, ha dovuto disporre il corpo sul tavolo della cucina. È rimasto lì per giorni, prima che Isneudy trovasse abbastanza soldi per seppellirlo. «Mio padre ha lavorato 32 anni in un ministero e l’hanno lasciato morire come un cane», si sfoga con il network Irin. Poco dopo, la nipote di 18 mesi di Isneudy, Luisa, si è ammalata di polmonite, una patologia che colpisce sempre più bambini in Venezuela a causa della malnutrizione. Ricoverata nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale, ha contratto un’infezione batterica. Anche questa volta, la famiglia ha cercato invano le medicine per curarla e Luisa è morta in ospedale. Anche questa volta, il corpo è stato adagiato per giorni sul tavolo della cucina.
«CONTIAMO 20 DECESSI AL GIORNO»
Un tempo, spiega la dottoressa Colomenares, «mi allarmavo se moriva un paziente in ospedale durante il mio turno. Ora nei reparti muoiono circa 20 persone al giorno. È terribile ma è la realtà di tutti i giorni». Il dispensario dell’ospedale universitario è vuoto, non ci sono più medicine. L’elettricità e l’acqua corrente sono una rarità «e per questo ci sono batteri ovunque». I problemi principali si riscontrano nel reparto neonatale, dove le incubatrici sono poche e funzionano a singhiozzo. I bimbi che nascono prima della 36esima settimana «quasi sempre muoiono. Purtroppo non possiamo farci niente».
Tra il 2015 e il 2016 la mortalità infantile è aumentata del 30 per cento e da allora «la situazione è peggiorata». Nei primi otto mesi del 2018 si sono riscontrati 650 mila casi di malaria, un tempo quasi scomparsa dal Venezuela. Tra il 2008 e il 2015 si è registrato nel paese un solo caso di morbillo: tra il 2017 e 2018, invece, i casi sono stati 5.332 e 64 persone sono morte. La difteria, altra malattia debellata, ha colpito 1.040 persone nel 2017, 628 nei primi otto mesi del 2018.
CHI PUÒ, SCAPPA
Tra il 2012 e il 2017, almeno 22 mila medici hanno abbandonato il Venezuela. Il 60 per cento degli 1,6 milioni di abitanti che abitavano Maracaibo nel 2015 sono fuggiti dalla città. La situazione è simile anche altrove. A Cumaná, capitale dello Stato di Sucre, sono rimaste solo otto macchine per la dialisi. Luis Rodriguez, che soffre di disfunzione renale, deve trovarsi da solo le medicine per il trattamento, che è stato ridotto della metà. «L’anno scorso eravamo in 65 a venire quotidianamente in ospedale per le cure», racconta. «Quest’anno siamo rimasti in 24. Mi reco a molti funerali. Il prossimo potrebbe essere il mio».
A 260 km da Maracaibo, nel villaggio di Tucuco, vive la famiglia di Herminia Ramirez. Suo figlio, dopo aver contratto la malaria nove volte, ha problemi al colon. A due ore di macchina, a Machiques, c’è un ospedale dove lavora la dottoressa Ingrid Graterol, che per la Caritas visita spesso il villaggio. «L’ospedale purtroppo non ha più la sala operatoria, quindi il ragazzo dovrebbe andare a Maracaibo. Il problema è che il trasporto pubblico non funziona più». Il problema riguarda tutta la popolazione. «Se una donna ha bisogno del parto cesareo, muore. Se trova un’automobile, non c’è la benzina. Se trova la benzina, l’autista spesso preferisce rivenderla. Se trova la macchina, la benzina e l’autista di sicuro ha finito i soldi per pagare il viaggio fino a Maracaibo».
Rafael Piroza, presidente dell’Associazione dei medici dello Stato di Sucre, commenta così la situazione sanitaria del paese e la condizione della sua categoria: «Siamo frustrati e ci sentiamo impotenti. Siamo stati formati per curare la gente e batterci per la loro vita. Ma ora non abbiamo più i mezzi per farlo e molti di noi si sentono in colpa. Come se fossimo complici di questa situazione».
Foto Ansa
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