
Giuli, Geppi e il martirologio dell’egemonia culturale di Repubblica

Ogni tanto, si sa, sbrocca anche Concita. Capiamoci: chi, dalle parti di Repubblica e del piagnisteo corale dell’intellighenzia tendenza Capalbio, non va matto per la lotta di classe? Poteva Repubblica, e soprattutto Concita De Gregorio, non fare degli intellettuali privati-di-denari-e-tribuna-dal-ministro-Giuli una categoria dello spirito da difendere come Silone difendeva i cafoni d’Abruzzo? Volete che vengano esiliati su Rai Storia?
Solo che qui i cafoni, protagonisti del sermone lirico-funerario in difesa dei “perseguitati” di Concita pubblicato ieri su Rep, si chiamano Geppi Cucciari, Elio Germano, Stefano Massini, Tomaso Montanari. Non esattamente voci clandestine. La prima al Quirinale, il secondo premiato ai David di Donatello, gli altri onnipresenti su giornali, teatri, rassegne e talk show. Un sottoproletariato con il microfono in mano e, sicuramente, l’abbonamento a Repubblica. Detta da cafoni: se questa è censura, allora Pasolini fu ministro e Montanari è Solženicyn con la chiave del foyer.
Lotta di classe contro il ministro Giuli
Che succede è presto detto: Cucciari, col suo standing quirinalizio e libero accesso alla platea più istituzionale d’Italia, ha irriso il lessico del ministro. Germano lo ha attaccato non una, ma due volte: sul palco dei David e poi al Teatro Parenti a un incontro organizzato da Domani, perché la classe operaia non va al cinema, la destra taglia la cultura come fosse cicoria, «un povero deve avere la stessa dignità di un ricco […] un palestinese la stessa dignità di un israeliano», e «dobbiamo divincolarci da questo terrorismo che fa sì che noi ci censuriamo».
Ovviamente nessuno è stato censurato: semplicemente, il ministro ha risposto. Tanto basta a Concita per appellarsi alla cara vecchia insuperata concezione di democrazia in cui il libero pensiero è sacro (ma solo se non pensa come il ministro della Cultura Alessandro Giuli), e la perdita del privilegio (di essere sempre nel giusto, applauditi, finanziati, e quando il privilegio scricchiola, gridare alla censura e chiamare alle armi la stampa amica) è automaticamente «nuovo fascismo». «Anche il nuovo papa», scrive stizzita Concita, parla degli “ultimi”, «ma col papa il ministro Giuli non se la prende, almeno per ora, con Germano e Cucciari sì».
La difesa degli intellettuali “martiri”
La difesa incrociata, si sa, chiama intellettuali che si autocanonizzano martiri, comici trattati da esiliati, drammaturghi da dissidenti, editorialisti da prigionieri politici, poiché è tipico dell’intellettuale organico alla bolla redazionale e della nuova resistenza avere ancora voce su tutti i giornali ma dichiararsi “zittito”. Fino a rifugiarsi nell’iperbole. Un ministro critica un attore? Censura. Lo chiama per nome? Terrorismo. Risponde? “E allora il Papa”?
Il caso è diventato nazionale, ma se La Stampa cava a Cacciari una (bonaria) critica alla replica («denota complesso di inferiorità»), Repubblica serve il carico da novanta: «La destra ha un complesso di inferiorità che crede di risolvere, di risarcire additando la sinistra come vittima di uno speculare e opposto complesso: la superiorità».
Il “complesso di superiorità” della sinistra
Lo scrive Concita assumendo l’altrettanto vecchia cara postura di chi ha dominato la scena culturale per trent’anni e oggi fa la gara a chi ce l’aveva meno amichettista. Per poi tornare egemone e pure un po’ cabarettista: «Potreste, diversamente orientati colleghi di fatiche, concorrere alla comune causa della democrazia e del sapere? Perché altrimenti toccherà di nuovo alla sinistra da sola, e non sarebbe bella questa nuova esibizione di supremazia culturale. Fatevi voi suprematisti, siate egemoni. Se non gramscianamente, tolkianamente».
Siamo sempre lì, alla parodia di Gramsci: se la sinistra occupa tutto e impone la qualunque siamo in democrazia, se lo fa la destra c’è il fascismo. Ma siamo anche alla comicità involontaria: un intero paragrafo è infatti dedicato a ridicolizzare il governo dove ci sono persone «anche colte», «rare», «che hanno studiato su testi di autori criptici e raffinatissimi», «hanno frequentato le biblioteche vaticane», «che parlano l’arabo e non disdegnano il sanscrito», «anche loro a tredici anni hanno senz’altro letto Il Signore degli Anelli ma poi, a differenza dei colleghi di compagine, hanno proseguito nello sforzo».
Ogni giorno ha la sua lagna
È l’upgrade della fase paranoia Telemeloni, quando ogni mattina un giornalista di sinistra si alzava sapendo che doveva correre in tv a denunciare che in tv non si può più dire niente. Ogni giorno, dal festival di Sanremo al Salone del libro di Torino aveva la sua lagna. “Capocrazia”, “regime”, “occupazione”, “Eiar”, “Era meglio con Berlusconi”, “Non c’è libertà di parola”.
Repubblica pubblicava le liste di proscrizione dei «colonnelli iscritti a Unirai» e allora come oggi Concita De Gregorio prendeva le parti di tutti coloro cui era stata tolta la libertà di parola. Forse voleva dire “l’egemonia”.
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