Giovani, carini e non scioperati. Cercansi prof per la scuola più vecchia del mondo
Articolo tratto dal numero di febbraio 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
I dati relativi al 2017 su “chi sono gli insegnanti” di Education at a Glance 2019 dell’Ocse danno un’immagine degli insegnanti italiani come i più vecchi di tutti gli altri paesi, anche limitando l’analisi all’Europa a 23. La variabilità fra i paesi è molto elevata, per cui i valori medi non hanno molto significato, ma nella maggior parte dei paesi e in tutti i livelli di scuola, circa la metà dei docenti si colloca nella fascia di età 30-49, e le maggiori variazioni sono fra i più giovani (meno di 30 anni) e i più vecchi (più di 50).
L’Italia detiene, insieme alle repubbliche baltiche, il poco invidiabile primato di essere il paese con la minor percentuale di insegnanti sotto i 30 anni, che va dallo 0,6 per cento della scuola primaria a poco più del 2 nella secondaria di primo e secondo grado: i valori medi europei sono rispettivamente 13, 11 e 8 per cento. Gli over 50 sono più della metà del corpo docente in tutti i livelli dell’istruzione, addirittura il 63 per cento nella secondaria superiore (contro il 40 della media europea). L’età media dei docenti è in Italia di 50 anni, contro i 41 anni della Francia e i 37 del Regno Unito, che è anche il paese in cui il gruppo dei giovani è più consistente: il 31 per cento nella scuola primaria, il 24 nella secondaria di primo grado e il 18 nella secondaria di secondo grado. In due terzi dei paesi Ocse (l’Italia è fra questi) negli ultimi dieci anni il corpo docente è invecchiato, e solo in un terzo è ringiovanito: fra questi Francia, Germania, Regno Unito e Stati Uniti.
A fronte di questi dati si potrebbe approfondire il confronto, con risultati impietosi per il nostro paese, e soprattutto ci si può chiedere quali sono le cause, quali le conseguenze, quali le misure da prendere.
Le cause dell’invecchiamento, e in un certo senso della disaffezione dei giovani per una professione un tempo molto apprezzata, sono di vario ordine. Alcune sono comuni a tutti i paesi, altre sono specifiche – o più gravi – per l’Italia. Tra le cause strutturali, possiamo ricordare il generale invecchiamento della popolazione, la concorrenza esercitata da altre professioni soprattutto per le lauree tecniche e scientifiche, l’allungamento del percorso formativo, per cui l’accesso alla professione, incluso il periodo di praticantato previsto con lunghezza variabile in tutti i paesi, si sposta in avanti.
In Italia, calcolando 13 anni di scuola (contro i 12 della maggioranza dei paesi), 5 anni di laurea magistrale e il praticantato, le cui modalità variano con una velocità seconda solo a quella degli esami di maturità, se non ci sono intoppi si incomincia a insegnare come supplente verso i 26 anni. Il problema è che raramente si entra di ruolo, diventando docenti a tutti gli effetti, attraverso concorsi destinati ai neolaureati: la norma è che si passi da estenuanti permanenze in graduatoria, i cui assurdi estremi sono noti (per esempio il fatto che si può restare “precari” fino a 66 anni e sei mesi), ma la cui durata media – che non sono riuscita a trovare da nessuna parte – è spesso di 5-6 anni. Vuol dire che il nostro docente “normale”, se è baciato dalla fortuna, parteciperà a un concorso con migliaia di concorrenti, che si esaurisce in genere in un anno e mezzo. Il che significa che entrerà di ruolo a 28 anni, ma l’evento è così raro che dà il risultato sopra citato in meno dell’1 per cento deu casi.
Anche cause di altro tipo hanno abbattuto la desiderabilità dell’insegnamento: la perdita di prestigio legata alle caratteristiche sempre più impiegatizie della professione, che non prevede nessun riconoscimento al merito e nessun avanzamento di carriera, l’ambiente di lavoro sempre più complesso da controllare, la retribuzione troppo limitata rispetto alle persone dotate del medesimo livello di qualificazione. Ma sugli aspetti economici converrà tornare.
Le conseguenze dell’avere insegnanti vecchi sono legate innanzitutto alla difficoltà di far fronte al cambiamento: non per niente si dice che “gli insegnanti di ieri formano i ragazzi di oggi per il mondo di domani”. Non intendo affatto dire che i giovani sono sempre migliori dei meno giovani, ma certamente sono più lontani dalle esperienze dei ragazzi – basti pensare all’uso delle tecnologie e dei social network – e tendono a essere più resistenti al cambiamento. Ma il principale esito positivo a cui bisognerebbe pensare per tempo è il fatto che nel giro di una decina di anni ci sarà un turn over che forse non sarà drammatico solo perché, contemporaneamente, il crollo della natalità farà diminuire gli iscritti.
Ora, questa potrebbe essere un’opportunità da non perdere per accrescere la qualità del corpo docente, ma non c’è nessun sintomo che questo avverrà. Il percorso formativo è specializzato solo per i maestri della scuola primaria e dell’infanzia, e il numero chiuso, fissato dal Miur attraverso gli uffici scolastici regionali, si preoccupa di smaltire le graduatorie ignorando o quasi fenomeni come “quota cento” che hanno creato vuoti inattesi fra i docenti, così che la domanda supera l’offerta e i corsi di scienze della formazione primaria ricevono richieste dalle scuole già per gli studenti di quarto e quinto anno. Per la scuola secondaria, dato che si passa da una “normale” laurea specialistica, è possibile riciclare i laureati in eccesso, segnatamente per le aree umanistiche, mentre per le scientifiche e tecnologiche la concorrenza delle imprese, o dei paesi stranieri, è difficile da contrastare. Questa situazione è appesantita dalla politica protezionista dei sindacati, che tendono a considerare la scuola come un mercato del lavoro, destinato a rispondere ai bisogni dei docenti e non degli alunni, scambiando il piatto di lenticchie del posto sicuro con le ricompense legate al tipo e al valore dell’impegno propri di una professione socialmente fondamentale. I decisori politici non sono stati in grado, né sembra che lo saranno in futuro, di adottare misure per riqualificare la professione docente e consentire ai ragazzi di sviluppare le proprie potenzialità, per sé e per la società.
Basta “posti”, servono talenti
Che fare? Se si vuole uno slogan, per “svecchiare” il corpo docente è necessario passare dalla quantità alla qualità. Non serve avere insegnanti giovani se non sono preparati e selezionati, e attirati offrendo loro una carriera analoga a quella degli altri laureati. La mancanza di insegnanti accomuna molti paesi, che stanno già dandosi da fare per accrescere la desiderabilità di una professione che può tornare a essere fra le più ambite, non solo agendo sulla retribuzione (che certamente conta), ma soprattutto rendendola più flessibile e collegata allo svolgimento di funzioni differenziate, smontando quel presupposto dell’“unicità del ruolo docente” che è stato usato come una coperta per una diffusa mediocrità. Slogan come «Turn your talent to teaching», che rifiutano l’idea di un insegnante in mancanza di meglio (non poi così diffusa: una ricerca in corso fra gli insegnati delle scuole cattoliche vede la “mancanza di alternative” al sesto posto fra le motivazioni, con circa il 12 per cento di risposte, dato interessante sia pure per un universo un po’ particolare), o programmi come «Teach for America», che eroga borse di studio per un anno di insegnamento ai migliori laureati di tutte le facoltà, costituiscono esempi da imitare. Senza dimenticare la possibilità di godere di periodi di congedo per studio, o di alternanza scuola-impresa anche per gli insegnanti, la valorizzazione come formatori dei colleghi più giovani, il parziale distacco nelle università.
Ma quello che personalmente ritengo fondamentale è modificare radicalmente il reclutamento, abolendo davvero e non per finta le graduatorie, e assegnando alle scuole o alle reti di scuole il compito di assumere i docenti in possesso dei requisiti necessari, certificati dal centro, consentendo loro di modificare l’organico e valutandole sul risultato. Solo così si potrà contare sul fatto che le scuole disporranno dei docenti di cui hanno bisogno per realizzare il proprio progetto educativo e mantenere il patto con gli utenti, e non di quelli che sono rimasti senza posto.
Io abolirei proprio il concetto di “posto”: ogni istituto dichiara nella propria programmazione triennale di quanti insegnanti ha bisogno, di che tipo, e con quale contratto; gli insegnanti si impegnano a restare nella scuola fino al completamento del progetto triennale; la scuola si impegna a rescindere il contratto solo in presenza di plateali inefficienze o radicali trasformazioni dell’utenza o dei programmi.
“Decreto salvaprecari” è una dizione inaccettabile e indecorosa, che corrisponde a un concetto anch’esso inaccettabile, e cioè che i precari siano una specie di catastrofe naturale a cui bisogna rassegnarsi: l’obiettivo è far sì che i precari non esistano, perché abolirli, finché vige un sistema di reclutamento centralizzato, non è possibile. Ma questo, temo, non avverrà mai.
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Luisa Ribolzi, autrice di questo articolo, è stata professore ordinario di Sociologia dell’educazione all’Università di Genova
Foto Ansa
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