Pubblichiamo la rubrica di Alfredo Mantovano contenuta nel numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
Gentile onorevole Michela Marzano, il giorno di Pasqua ho letto con interesse il suo editoriale su Repubblica, e l’ho sinceramente condiviso. Lei ha scritto a margine del breve e simpatico video che Giacomo Mazzariol, 18 anni, di Castelfranco Veneto, ha dedicato a suo fratello Giovanni, 12 anni, che ha la sindrome di Down. È un corto che ha spopolato sul web: con intelligenza e ironia, ma con passaggi toccanti, rappresenta un colloquio di lavoro fra un freddo selezionatore e Giovanni. Non provo a sezionare il suo articolo in citazioni: va gustato per intero perché altrimenti perde senso; lei segnala l’autenticità e la gioia di questi pochi minuti di filmato, e la necessità per i “normali” di guardare chiunque con umiltà, oltre la soglia della presunta “anormalità”.
Approfitto di Tempi per proporle un passo ulteriore: mi creda, non all’insegna della polemica ma dello sviluppo coerente di quanto lei osserva in modo così convincente. Se 13 anni fa la mamma di Giovanni si fosse uniformata alla mentalità egemone, che dal 1978 è formalizzata nella legge 194 e che nei decenni è sacralizzata dalle pronunce della Corte costituzionale, avrebbe fatto esercizio di autodeterminazione; la legge e la sua costante applicazione permettono senza problemi di sopprimere un bambino down – l’indicazione contenuta all’articolo 4 di quella legge parla di «previsione di anomalie o malformazioni del nascituro» –, perfino se è vitale: per l’articolo 6 ciò può accadere fino al sesto mese di gravidanza.
Come si legano da un lato la possibilità giuridica e materiale, col sostegno del Servizio sanitario nazionale, di uccidere un essere vivo e spesso vitale, solo perché vi è la «previsione» – neanche la certezza, che comunque non cancella l’umanità del concepito – di «anomalie», e dall’altro la sollecitazione a guardare dentro di sé quando si ha di fronte una persona con quelle «anomalie»? Mi spiego meglio: come si può costruire il doveroso rispetto per l’altro, superando il suo incasellamento nella categoria del “diverso”, quando all’inizio dell’esistenza proprio il richiamo a quella categoria ne legittima la soppressione?
Sarebbe per me irrispettoso nei suoi confronti utilizzare le sue considerazioni per ipotizzare la riforma della legge 194, pur non nascondendo che per me quella legge è ingiusta e disumana. Traggo spunto dalle sue riflessioni per sperare che l’attenzione al presunto “diverso” sia credibile proprio perché non conosce deroghe temporali; perché si collochi già all’avvio della vita dell’uomo e si traduca, di fronte al comprensibile smarrimento di ciascuna gestante per la possibilità che suo figlio non rientri nei canoni della “normalità”, in un aiuto e in un conforto reale verso quella donna. Perché non la si lasci sola davanti a una scelta drammatica, se mai permettendole di cogliere, con la delicatezza necessaria, la gioia che sprizza dal video dei fratelli Mazzariol.
Uno sforzo culturale prima della nascita, quando la vita già c’è, rende semplice e naturale proseguire dopo. Non è una questione partitica, e neanche confessionale: come la categoria escludente del “normale” penalizza chi la adopera prima ancora che coloro che ne vengono esclusi, così la riflessione sul punto di partenza del rispetto dell’altro, chiunque egli sia, senza discriminarlo in base alle condizioni fisiche né all’età, penalizza la civiltà se viene ridotta a diatriba politica. Che ne dice?