Femminicidi. Basta coi toni da lotta armata

Di Elena Fruganti
26 Novembre 2024
Parlare solo di "patriarcato" non fa cogliere la portata del problema, ma serve solo a dirottare il discorso su battaglie ideologiche contro la famiglia
Una panchina rossa, per ricordare le vittime di femminicidio, è stata inaugurata al Senato, 21 novembre 2024 (foto Ansa)
Una panchina rossa, per ricordare le vittime di femminicidio, è stata inaugurata al Senato, 21 novembre 2024 (foto Ansa)

Ad ogni giornata di celebrazione o commemorazione si aggiunge la frase “non solo oggi, ma ogni giorno dobbiamo ricordare i contenuti di questa ricorrenza”. Ecco, questo credo valga a maggior ragione per la lotta contro la violenza sulle donne, perché il numero dei femminicidi indica una strage che si consuma quotidianamente e spesso nell’indifferenza di un mondo che si scandalizza sui media, ma è connivente nei fatti.

Quando una battaglia diventa identitaria per certe associazioni, rischia di assumere un connotato ideologico escludente, quindi di parte, parziale, limitato. Alcune associazioni femministe, che avevano perso il loro vigore grazie all’emancipazione femminile che la società occidentale ha garantito, hanno ritrovato nuova linfa negli ultimi anni quando si è cominciato a dare un nome al nemico: il patriarcato. Inizialmente, infatti, di fronte al fenomeno dei femminicidi non c’è stata una immediata mobilitazione, un fenomeno troppo complesso per individuarne le cause, poi la reazione è andata crescendo, ma ora è come se si fosse sclerotizzata nella battaglia al famigerato patriarcato. La semplificazione rende più facile la comunicazione, la costruzione di slogan, la mobilitazione, che però in questo caso non ha un obiettivo né chiaro né tantomeno condiviso.

Manifestazione "Il patriarcato uccide" in Largo Beltrami a Milano, 25 novembre 2023 (Ansa)
Manifestazione “Il patriarcato uccide” in Largo Beltrami a Milano, 25 novembre 2023 (Ansa)

Cosa è il patriarcato

Il patriarcato, per come lo si intende oggi, è un mix di elementi tra loro sconnessi, che avrebbero come denominatore comune la supremazia maschile sulla donna. Però usare un termine vecchio per indicare contenuti nuovi disorienta e diventa strumentale. Nella parola patriarcato una certa parte politica include anche il modello di famiglia tradizionale, naturale, con una divisione complementare dei compiti e dei ruoli… insomma un modello familiare secondo loro da destrutturare perché colpevole di perpetuare stereotipi di genere, considerati il fondamento culturale della violenza sulle donne. La teoria del patriarcato però così non regge e diventa sempre di più strumento di battaglia politica e partitica contro il governo di centro destra, contro alcuni ministri, contro i pro life, contro una parte della società. Questo è il modo peggiore per produrre un cambiamento culturale. Attaccarsi ad un termine controverso e farne un vessillo irrinunciabile lascia il dubbio che a qualche associazione interessi di più ritornare in auge grazie a battaglie politiche, piuttosto che risolvere il problema con il contributo di tutti.

Il termine patriarcato identifica il modello familiare del padre padrone che, qualche decennio fa, comandava in famiglia a scapito delle donne di casa, relegate a mansioni domestiche subalterne. Però questa identificazione appare anacronistica nel nuovo tessuto sociale contemporaneo, in cui le famiglie sono sfasciate, allargate, monogenitoriali, multiculturali… insomma nulla più a che vedere con la famiglia italiana degli anni Cinquanta.

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Le famiglie di una volta

Altra contraddizione evidente è che nell’epoca delle famiglie patriarcali non c’erano i femminicidi di oggi, forse perché c’era una rete sociale di supporto e di controllo che garantiva la donna. Le famiglie in cui si viveva tutti insieme: genitori, figli con famiglia, nipoti e cugini, si mangiava alla stessa tavola, si prendevano decisioni che ricadevano sulla vita di tutti, le dinamiche relazionali della coppia erano note e condivise con il resto della famiglia. Questo poteva essere una grave forma di invadenza nella privacy di un nuovo nucleo familiare, ma dobbiamo riconoscere che era anche un solido salvagente per calmierare la violenza domestica. L’intervento protettivo di un parente, il sostegno di una sorella o di una cognata erano meccanismi di argine agli istinti violenti di un singolo e di protezione per la donna. In pieno patriarcato le donne non venivano uccise!

Le famiglie di oggi invece sono sole, sono famiglie mononucleari, spesso lontane da quelle di origine, in cui tutto si consuma entro mura domestiche, che diventano prigioni di omertà. In molti casi le donne non sanno con chi confidarsi, hanno vergogna, non vedono un’alternativa alla loro relazione malata. Nel mondo patinato della felicità artificiale ostentata sui social non c’è spazio per la coppia in crisi, la donna maltrattata, l’uomo incapace di affetto. Nel mondo artificiale di bellezze innaturali costruite a suon di botox e palestra non si riesce a lanciare un grido di dolore vero.

Al tempo dei miei nonni, i metodi educativi sui figli erano sicuramente violenti, eppure nessuno uccideva i propri figli. Nella famiglia patriarcale il figlio era culturalmente oltre che affettivamente il bene più prezioso, un padre si sentiva responsabile per le azioni del figlio, per la sua condotta sociale, per la sua riuscita, i figli erano il fine di tutti i sacrifici e le aspettative di ascesa sociale. Oggi accade che i padri uccidano anche i figli oltre alle compagne, quasi rappresentino degli estranei, meri strumenti punitivi per far del male alla donna che si sta perdendo, rivelando una crudeltà e anaffettività mai evidenziati in passato. L’uccisione di un figlio è quanto di più distante dalla cultura della famiglia patriarcale per come la nostra società l’ha sperimentata.

Cartelli contro la violenza sulle donne e in ricordo di Giulia Cecchetin all'esterno dell'università di Palazzo Nuovo, Torino, 21 novembre 2023 (Ansa)
Cartelli contro la violenza sulle donne e in ricordo di Giulia Cecchetin all’esterno dell’università di Palazzo Nuovo, Torino, 21 novembre 2023 (Ansa)

La questione degli immigrati

Senza dubbio la società multiculturale contemporanea conosce forme di sottomissione della donna che hanno una matrice culturale propria di paesi non europei, in cui la dimensione religiosa, le leggi che la traducono sul piano civile, i costumi che ne derivano sono improntati ad una differenza non paritaria tra i sessi. Sembra che questa evidenza non si possa dire senza essere tacciati di razzismo, eppure la censura di alcuni aspetti del fenomeno femminicidi impedisce di trovare le giuste soluzioni. Molte donne immigrate fanno fatica ad integrarsi, perché non lavorano, non parlano bene la lingua, restano relegate in circuiti sociali di soli connazionali.

Questa mancanza di strumenti culturali è un fattore di marginalizzazione sociale, che non lascia via d’uscita alle donne maltrattate, spesso ignare dei sostegni che le strutture pubbliche attivano. Al momento, sono poche le donne straniere che denunciano alle forze dell’ordine eventuali maltrattamenti. Avendo vissuto in un paese arabo, so bene che non si può generalizzare, perché nelle famiglie musulmane la donna è anche fulcro della vita domestica, la madre è oggetto di rispetto da parte dei figli e titolare di una sfera di attività sociale che esclude l’autorità maschile, in una rigida separazione dei ruoli. Però se questo modello familiare non è diffuso, le relazioni extrafamiliari delle donne immigrate restano limitate, le famiglie si chiudono al contesto sociale del paese di accoglienza e le donne diventano i primi soggetti vulnerabili e difficili da intercettare.

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Il corpo femminile

Che il fattore culturale possa avere un peso è innegabile, sono nella memoria di tutti alcuni fatti di cronaca in cui all’origine di tragedie domestiche c’è stato il rifiuto di matrimoni combinati con sconosciuti. Altrettanto evidente è che non appartengono alla cultura occidentale alcune pratiche violente sul corpo femminile come la mutilazione genitale, che purtroppo è praticata anche in Italia. Non serve negarlo, occorre trovare insieme gli strumenti idonei ad affrontare il problema.

Altro aspetto, che non esisteva ai tempi della famiglia patriarcale, mentre è tipico della nostra epoca è l’oggettivazione del corpo femminile, soprattutto da parte delle donne stesse, specie se giovanissime. Le figlie o le nipoti delle femministe, che negli anni 70 hanno lottato per l’emancipazione femminile al grido “il corpo è mio e lo gestisco io”, oggi traducono l’essere padrona del proprio corpo con l’esporlo in vetrina su Internet o inviando foto intime ai loro partner. Donne anche giovanissime che si sentono gratificate dal mostrare una fisicità provocante, ammiccante, riducendo la relazione con l’altro sesso ad un mero scambio istintivo, fatto di richiami sessuali espliciti, che storpiano la femminilità, riducendola ad oggetto delle fantasie sessuali di coetanei immaturi o di adulti perversi.

Come è possibile che le nostre giovani donne non riescano ad essere consapevoli che la loro femminilità è una dimensione complessa, carica di potenzialità di amore, di altruismo, generativa per natura, quindi protesa all’altro, all’empatia, alla cura, alla creatività, alla forza? Come possono scegliere di dare di sé una rappresentazione che le riduce ad un corpo seminudo sul web? Chi le guarda sarà interessato in prima battuta a conoscerne opinioni e sentimenti? L’oggettivazione rimanda al possesso. Non è una colpevolizzazione nei confronti delle ragazze, ma il richiamo ad un lavoro educativo da fare sulla consapevolezza di sé, sulla comunicazione non verbale, sull’uso dei social, sul senso del pudore, che significa protezione della propria sfera intima e personale.

Relazioni tossiche

La diffusione di modelli culturali misogini e machisti tra le giovani generazioni avviene anche attraverso generi musicali i cui testi sono fortemente lesivi della dignità femminile, eppure molte ragazze li apprezzano, li cantano, minimizzano la portata dei messaggi, addirittura si sentono gratificate dall’essere destinatarie di certe attenzioni. Sembra incredibile, ma le cosiddette “relazioni tossiche” sono all’ordine del giorno tra i giovanissimi. Il modello “bravo ragazzo”, studioso, educato, mite non funziona più, è il “nerd” da cui prendere le distanze. I ragazzi non conoscono il patriarcato, anche se inconsapevolmente lo incarnano nella sua accezione più ampia, ma se continuiamo a dare al fenomeno un nome che identifica un modello del passato, loro non si sentiranno coinvolti.

Un altro fattore contemporaneo poco studiato in relazione ai femminicidi è l’uso diffuso di sostanze stupefacenti. L’abbassamento della soglia di guardia rispetto al fenomeno delle dipendenze ne ha favorito la crescita. La condanna sociale è sempre minore, addirittura si chiede la liberalizzazione di alcune sostanze, eppure i soggetti dipendenti manifestano danni neurologici, disturbi della personalità, dell’umore, up and down, perdita di controllo, mancanza di lucidità, sono tutti effetti noti, ma sembra che non si voglia cercare la relazione dell’uso di droghe con la diffusione della violenza, soprattutto domestica.

Un compito per tutti

Finché non si avrà l’onestà intellettuale di guardare al fenomeno della violenza sulle donne senza censurarne alcune concause, non si riuscirà ad affrontare il fenomeno. Le leggi ci sono, si dice, questo governo tra l’altro le ha inasprite, ma non basta. Prima del piano repressivo, infatti, c’è quello educativo, ma allora è ora di smettere di farne battaglia partitica, antigovernativa, anti famiglia naturale, anticattolica… anti qualcosa. Basta con i toni da lotta armata, è una questione che riguarda tutti. Non c’è una ricetta magica.

È un’emergenza che richiama il senso di responsabilità di ciascuno, ognuno deve sentirsi coinvolto nel fare la propria parte: come madri, padri, amiche, partner, insegnanti, compagni di classe, compagne di sport, amici, vicini di casa, passanti, estranei, isomma esseri umani coinvolti con il destino di ogni altro essere umano.

Occorre imparare ad intercettare il bisogno dell’altro, il grido d’aiuto inespresso, elevare la soglia di attenzione, guardare oltre il proprio baricentro, spezzare i muri di solitudine, credere nel valore delle relazioni umane. Occorre educare al rispetto, di sé e degli altri, educare ad amare senza possedere, insegnare ad uscire dalla trappola del narcisismo dilagante per imparare la gratuità nei rapporti interpersonali, occorre un’azione educativa che parta dal condividere la vita, dal mettere a tema i grandi valori umani, che aiuti ad alzare lo sguardo verso l’infinito, a riconoscere che siamo fatti per qualcosa di grande, che sorregge la nostra speranza. È un compito di tutti e di ciascuno.

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