Farli votare per poi fuggire. Il timore degli iracheni ora è proprio questo. E forse non è solo un timore. I segnali s’incominciano a percepire a Washington e nelle cancellerie occidentali. L’idea che la partita irachena sia definitivamente perduta, che il pasticcio sia irresolvibile, che l’unica soluzione sia quella di inscenare una parvenza di transizione ed abbandonare il campo. In questo caso queste elezioni rischiano di essere il cerotto sopra un tumore. Ma la prima riflessione, prima ancora della politica e della strategia è molto più semplice.
è possibile chiedere ad un uomo di rischiare la vita per esercitare un proprio diritto politico? Il dibattito sulle elezioni irachene deve partire proprio da qui. Volenti o nolenti bisogna ammettere che in tutto il Triangolo Sunnita, ma anche a più a nord, a Mosul, a Kirkuk e a sud, fino a Hilla, le forze del governo iracheno e quelle della coalizione che l’appoggiano non garantiscono un briciolo di sicurezza. La guardia nazionale e la polizia del governo Allawi sono diventate la vittima preferita degli attacchi della guerriglia. A tutt’oggi non ricordo una sola occasione in cui le truppe regolari siano riuscite ad aver la meglio sugli insorti o a sgominare senza l’appoggio degli americani un attacco terrorista. Come riusciranno a garantire la praticabilità dei seggi? Come potranno assicurare l’incolumità anche minima di chi vuole andare a votare? Semplice: non potranno farlo. Non esistono le condizioni minime perchè possano riuscirci. E con molta probabilità ben pochi elettori nelle zone più a rischio decideranno di mettere in gioco la propria esistenza per deporre una scheda nelle urne. Anche un popolo ancora a digiuno di democrazia comprende che una transizione politica è possibile solo là dove esistano un governo o un’istituzione in grado di garantire le condizioni minime della convivenza. Quando diventa impossibile non solo organizzare un comizio o parteciparvi, ma persino fare una passeggiata per il timore d’incappare in un’auto bomba, di venir rapito, o semplicemente ferito in un conflitto a fuoco questi principi minimi non sono garantiti.
BASTAVA ASCOLTARE PACHACHI
Nel caso delle elezioni presidenziali svoltesi nei territori palestinesi esisteva almeno questa labile sicurezza ed esisteva l’impegno degli israeliani a facilitarne il processo. A Bagdad, Mosul, Baqouba, Ramadi, Tikrit e in una decina almeno d’altre città non esiste nulla di tutto questo. Per di più non esiste un solo partito o un solo candidato sunnita che abbia deciso di presentarsi. Di conseguenza la gran parte dell’elettorato sunnita verrà tenuto e si terrà lontano dalle urne. In queste condizioni l’aver comunque svolto le elezioni si tradurrà in una sconfitta storica anziché in una vittoria. Quei quattro milioni di elettori tenuti lontani alle urne diventeranno nei prossimi mesi e nei prossimi anni la certificazione della vittoria del terrorismo e della guerriglia in un’ampia zona del paese. Rinviando l’appuntamento con le urne questa certificazione non sarebbe mai esistita, non sarebbe mai stata documentata.
Bastava ascoltare i consigli pacati di un anziano della politica irachena come Adnan Pachachi difficilmente sospettabile di complicità con gli insorti, il terrore o le forze occidentali. Per mesi Pachachi ha supplicato uno scaglionamento del calendario elettorale. Nessuno gli ha dato retta. Invece di accettare una proroga sensata, invece di ammettere l’impossibilità di organizzare la tornata elettorale nei tempi previsti si gioca con la vita degli elettori sunniti. Si fa carne di porco di quegli stessi cittadini di cui il governo e i suoi alleati avrebbero bisogno per rompere la spirale del terrore, per togliere appoggi e connivenze.
Ancora una volta si dimostra di non comprendere le esigenze e le richieste della popolazione sunnita regalando favori al campo del terrore. Facendolo si accetta di registrare a futura memoria la mancanza di milioni d’elettori tenuti lontani dalle urne con la forza della paura e dell’intimidazione. In nome di un ottuso concetto di puntualità si concede una vittoria storica al terrore. Ma questo è solo il male immediato. Dando il via libera a questa partita elettorale si accetta di consegnare il paese a curdi e sciiti, di affittare a loro e solo a loro il parlamento, di lasciar scrivere la costituzione agli uomini del Grand Ayatollah Sistani e ad altre forze in alcuni casi molto vicine all’Iran. Il rischio è quello di creare le premesse per una futura guerra civile. Una guerra civile di cui già semina le premesse Zarkawi facendo strage nelle città e nei quartieri sciiti. Come si potrà lasciare al proprio destino un paese dove la componente etnica che l’ha governato, giustamente o ingiustamente, per trent’anni si ritrova improvvisamente messa al bando esiliata da qualsiasi decisione?
RINVIARE LA RESA DEI CONTI
Ma il rischio peggiore per gli americani dopo queste elezioni sarà quello di aver portato al potere una quinta colonna del loro nemico più insidioso, di quelle forze iraniane che continuano a esercitare una larga influenza su molti gruppi sciiti. E nel nord lo scontato successo dei curdi e la relativa stabilità di quelle zone rispetto al dissesto del resto del paese finiranno inevitabilmente con il consolidare l’idea di un Kurdistan pronto alla secessione. E a farne le spese saranno ancora una volta gli Stati Uniti e i loro alleati turchi. Con queste prospettive non solo non bisognava votare, ma soprattutto non bisognava farlo per giustificare una ritirata occidentale dopo le elezioni. Bisognava accettare l’impossibilità del voto e mandare se necessario altre truppe. Bisognava aver il coraggio di guardare la drammaticità della situazione e capire che rinviare la cura di quel tumore impiantato nel cuore del medio oriente ci porterà soltanto a sacrificare più vite umane in futuro.
Oggi non è facile, ma sarebbe ancora possibile se l’Europa e gli Stati Uniti lo volessero veramente: mandare più truppe e spazzare via l’infiltrazione di Zarkawi e dei suoi accoliti. Inscenando le elezioni e andandosene si rinvia solo di qualche anno la resa dei conti.