Eritrea, dove il coraggio della fede è crocifisso

Di Leone Grotti
20 Dicembre 2016
Imprigionati e perseguitati dal regime, eppure fieri della propria fede. Un testimone d’eccezione ci racconta la vita nel paese dove i cristiani vengono uccisi con una tortura che si chiama “Gesù Cristo”
epa04875961 Three migrant women from Eritrea pray in a small church they have built at the makeshift migrant camp the 'Jungle' on the outskirts of Calais, France, 06 August 2015. More than 3,000 migrants live in the camp according to associations and non-governmental organizations (NGOs). EPA/ETIENNE LAURENT

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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – In Eritrea Gesù Cristo non è quello che sembra e anche sotto Natale è un nome che può suscitare terrore. Tutto dipende dal contesto. Se sono i cristiani a parlare del figlio di Dio è una cosa, se sono i poliziotti nelle grandi e numerose carceri dello Stato cambia tutto. “Gesù Cristo” infatti è il soprannome che viene dato a uno speciale tipo di tortura spesso inflitto a chi viene arrestato, ma soprattutto ai cristiani: il prigioniero viene legato e fatto pendere da un albero in modo tale che è costretto ad assumere una postura corporea simile a quella delle persone crocifisse. Non è raro che i cristiani siano arrestati per la loro fede in Eritrea: il paese del Corno d’Africa è retto dalla dittatura del presidente Isaias Afewerki fin da quando la popolazione ha sancito per referendum l’indipendenza dall’Etiopia nel 1993. La persecuzione è tale che secondo un rapporto dell’Onu «il regime percepisce la religione come una minaccia alla sua stessa esistenza». Non a caso, il paese si è guadagnato il poco gratificante appellativo di “Corea del Nord africana” ed è terzo nella speciale classifica degli Stati dove i cristiani sono più perseguitati.

[pubblicita_articolo allineam=”destra”]La Costituzione del 1997 è bellissima e garantisce il rispetto di tutti i diritti umani, e anche qualcosa in più, peccato che non sia mai stata realizzata. Dopo anni di promesse, finalmente nel 2002 lo Stato ha ammesso quattro confessioni religiose: Chiesa ortodossa, Chiesa cattolica, Chiesa evangelica luterana e islam sunnita. I loro fedeli hanno una limitatissima libertà di culto, tutti gli altri neppure quella. Ancora oggi, nelle oltre 300 carceri, ufficiali e non, sparse per il paese languono più di 10 mila prigionieri politici e di coscienza in condizioni spaventose. I cristiani incarcerati per la loro fede sono «migliaia», il dato più credibile si aggira intorno alle tremila unità e si può essere arrestati anche solo per il possesso di una Bibbia, come hanno denunciato con coraggio due anni fa i vescovi cattolici.

Elsa non sa neanche perché è stata arrestata, forse perché sorpresa a pregare, e la polizia l’ha rinchiusa insieme alla sorella in prigioni nascoste. «Ci hanno picchiate a morte, a volte ci rinchiudevano in container arroventati di giorno e gelidi di notte. Non avevamo quasi niente da mangiare e nessun accesso alle cure mediche», racconta ai funzionari dell’Unhcr, che hanno raccolto la sua testimonianza nel centro profughi dell’Etiopia dove si è rifugiata dopo essere riuscita a scappare dal paese. «Non mi dimenticherò mai le grida di dolore di mia sorella. Non l’ho mai più rivista». Elsa è una dei 60 mila eritrei che ogni anno per la disperazione scappano dal paese. Si tratta di cinquemila persone al mese, 160 al giorno, 7 ogni ora.

Non è appena un problema di libertà religiosa perché tutto il paese «è un’enorme prigione a cielo aperto, piena di celle e campi di concentramento», secondo Berhane Asmelash, medico cristiano scappato dopo essere stato incarcerato e torturato. È lui, che insieme a molte altre, ha descritto la tortura “Gesù Cristo”. In Eritrea non esistono diritti umani, libertà di espressione, pensiero e stampa. Vige un «pervasivo sistema di sorveglianza e spionaggio che colpisce gli individui dentro e fuori dal paese». Vivendo nella «costante paura» di essere monitorati e temendo di essere «arrestati, torturati, fatti sparire e uccisi», gli eritrei sono costretti ad «autocensurarsi in molti aspetti della vita». Nessuno può sapere «quali attività potrebbero essere considerate “devianti” e sanzionabili». Il sentimento della popolazione è ben descritto da un testimone intervistato dall’Onu: «Quando sono in Eritrea, mi sembra di non potere neanche pensare perché sono spaventato dalla possibilità che la gente possa leggere i miei pensieri. E ho paura».

A malapena c’è la Bibbia
Il problema maggiore però non è la censura, la mancanza di libertà o l’assenza di diritti politici, quanto il servizio di leva obbligatorio. L’Eritrea è diventata indipendente dopo aver vinto una trentennale guerra di liberazione dall’Etiopia, scoppiata in seguito alla decisione dell’Onu di trasformare dopo la Seconda Guerra mondiale l’ex colonia italiana in una provincia etiope. Ancora oggi avvengono scontri armati lungo il confine, dovuti alle continue provocazioni reciproche, e nonostante un trattato di pace firmato nel 2000, Asmara e Addis Abeba si ritrovano ad essere né in pace, né in guerra. Il regime eritreo utilizza l’argomento delle tensioni sempre vive con l’Etiopia per imporre a tutta la popolazione, a partire dai 17 anni, la coscrizione obbligatoria. Il problema è che la durata del servizio di leva è indefinita e molti sono costretti a fare i soldati anche per 30 anni. Questa politica scellerata distrugge le famiglie e il tessuto economico della popolazione, oltre a rubare il futuro a migliaia di giovani. Per questo, chi può e riesce, scappa ed è disposto anche a rischiare di morire attraversando il Mar Mediterraneo verso le coste italiane: tutto meglio che vivere in Eritrea.

È di questo paese che parla con Tempi un testimone oculare che, di recente ed eccezionalmente, vi è entrato per una decina di giorni, dopo cinque anni di richieste e autorizzazioni negate da parte del regime. «È la prima volta che mi viene concesso di entrare, ottenere un visto è un’impresa», racconta a Tempi omettendo alcuni dettagli della sua visita per non mettere in pericolo i fedeli cristiani. «La situazione è molto delicata: i cattolici sono confinati dentro le mura delle chiese, dove possono praticare le loro attività. Fuori non possono fare nulla. Il proselitismo è vietato e anche per stampare libri religiosi ci vuole un’autorizzazione dello Stato. A malapena c’è la Bibbia, che comunque è molto costosa e difficile da reperire».

I seminaristi soldato
In questo paese di 6 milioni di abitanti, metà della popolazione è cristiana, l’altra metà musulmana. La maggior parte dei cristiani appartiene alla Chiesa ortodossa eritrea, mentre i cattolici sono appena 150 mila, divisi in 144 parrocchie. La Chiesa in Eritrea è viva, le vocazioni non mancano e ci sono più di 500 preti, 700 frati e 1.000 suore. Ma formarli è un’impresa: «Qui gli uomini ricevono il passaporto a 50 anni e le donne a 40, perché il regime teme che se lo avessero subito, scapperebbero tutti. Poiché anche entrare nel paese è difficilissimo, la Chiesa eritrea risulta isolata e deve sbrigarsela da sola per fare qualunque cosa». I sacerdoti, ma soprattutto i 245 allievi che riempiono i seminari, avrebbero ad esempio bisogno di un’istruzione superiore e di approfondire «l’educazione spirituale, teologica e intellettuale. Ma è impossibile. Purtroppo non possiamo aiutarli in alcun modo. Vorremmo fargli arrivare dall’estero dei libri, ma è proibitivo».

Questa è una situazione paradossale perché «gli eritrei sono anche un popolo molto spirituale, che desidera approfondire la fede, ma fa fatica perché gli viene impedito di imparare dai grandi maestri della Chiesa. Anche lo scambio di idee è limitato al minimo». I problemi non finiscono qui: tanti seminaristi, che magari vorrebbero continuare gli studi e diventare sacerdoti, una volta chiamati nell’esercito non ne escono più. «Questo è un grosso problema: nessuno purtroppo è esentato dal servizio di leva».

Una festa sofferta
Nonostante le difficoltà e il divieto di fare proselitismo, la Chiesa cattolica cresce e celebra circa 1.500 battesimi all’anno. Se parlare di Gesù con la bocca è proibito, i cattolici parlano con i fatti. Uno dei problemi principali del paese è rappresentato dalle migliaia di giovani uomini che tentano di scappare all’estero per condurre una vita dignitosa, lasciando indietro le rispettive famiglie. A fuggire sono i «più coraggiosi, educati, con possibilità di trovare lavoro all’estero, coloro che conoscono le lingue. Di conseguenza e inevitabilmente la classe media dell’Eritrea si impoverisce enormemente. E con essa le famiglie e la Chiesa stessa».

Chi non fugge è rinchiuso nelle caserme e la società finisce così per essere formata da donne sole con bambini e vecchi. «La Chiesa cattolica è una delle poche istituzioni a occuparsi dell’istruzione dei bambini, dei poveri e degli emarginati. È l’unica ad aver fondato degli asili e aiuta le donne a imparare un lavoro per mantenere tutta la famiglia, che non conosce la “vita normale”». Queste opere sociali «hanno profondamente stupito il popolo eritreo, che ha sempre più stima e considerazione della Chiesa. La gente infatti percepisce che i cattolici sono gli unici a prendersi cura di loro».

Anche in Eritrea il 25 dicembre si celebrerà il Natale, ma durante i limitati festeggiamenti la gioia non è mai completa. «Anche qui c’è la tradizione di passare il Natale in famiglia ed è per questo che la festa è sempre un momento di sofferenza. Le famiglie infatti sono spesso divise, con molti componenti lontani e scappati dal paese, impossibilitati a tornare. Se quindi, da un lato, è una festa felice per tutti i cristiani, dall’altro è quella in cui le famiglie si ricordano di essere divise. E sognano di passare in futuro un Natale insieme».

La nostra fonte visita molte comunità cattoliche africane e quelle del Medio Oriente. Per quanto riguarda persecuzioni e difficoltà ne ha viste di tutti i colori, eppure definisce la Chiesa eritrea come «la più unita che io abbia mai conosciuto. Sono sempre pronti ad aiutarsi, attenti ai bisogni spirituali ma anche a quelli della società. Ma soprattutto è la Chiesa più coraggiosa che abbia mai visto». La lettera pastorale intitolata “Dov’è tuo fratello?”, pubblicata nel maggio del 2014 dai quattro vescovi eritrei, ne è un esempio lampante. Senza mezzi termini, i prelati hanno accusato il governo della disgregazione della famiglia: «I componenti di ogni nucleo oggi sono sparpagliati tra il servizio nazionale, l’esercito, i centri di riabilitazione, le carceri, con gli anziani lasciati indietro senza nessuno che si prenda cura di loro. Tutto questo sta rendendo l’Eritrea una terra desolata». Dopo aver condannato i troppi prigionieri per ragioni politiche e di coscienza, in un paese dove perfino «fare domande può costituire un reato», denunciano anche la mancanza di libertà di espressione: «I nostri giovani fuggono verso paesi dove c’è giustizia, lavoro e dove ci si può esprimere senza timore ad alta voce. Non ci sarebbe ragione di cercare nazioni dolci come il miele se uno vivesse già in un posto del genere».

Fino alle estreme conseguenze
«Chi osa parlare così pubblicamente in Eritrea?», si domanda. «Nessuno! Chi si esprime con tanta franchezza e chiarezza, in modo così esplicito, entrando in tematiche politiche e sociali? Nessuno. Sono di un coraggio stupefacente. Anche questa è carità, anche questa è misericordia». Ed è uno dei tanti motivi per cui è rimasto folgorato dagli eritrei: «Non è solo il coraggio. Mi ha colpito vedere quanta nostalgia i cristiani abbiano di Dio e della fede. E con quale determinazione insegnano tra le difficoltà il Vangelo, seguendo i suoi insegnamenti fino alle estreme conseguenze, se necessario. Sempre senza lamentarsi però, contenti del poco che hanno. Non mi dimenticherò con quanta sincerità un bambino in un seminario minore mi ha detto: “Voglio diventare prete per seguire Dio e guidare il popolo”. Purtroppo non tutti potranno farlo: alcuni sono gli unici maschi in famiglia e i genitori non vogliono lasciarli andare; altri vengono arruolati e l’esercito non vuole lasciarli andare. In ogni caso, mi hanno segnato profondamente». 

Foto Ansa

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