Bielsa contro Simeone. Sta tutta qui l’essenza della finale di stasera di Bucarest, atto conclusivo dell’edizione 2012 dell’Europa League (nome che, ai nostalgici come me fa venire il voltastomaco, al solo pensiero che una simile, anonima etichetta sia stata preferita al più glorioso “Coppa Uefa”). Due allenatori dalle esperienze calcistiche opposte: più di 20 anni fa iniziava la carriera da tecnico El Loco, che però solo la scorsa estate è approdato su una panchina europea, all’Athletic Bilbao. Più giovane è invece il curriculum del Cholo: dopo la bella salvezza di un anno fa a Catania, e qualche panchina qua e là in Argentina, lo scorso dicembre è diventato tecnico dell’Atletico Madrid, e in poco tempo ha letteralmente trasformato i sofferenti colchoneros, regalandogli questa inattesa finale. E se Bielsa più volte è stato accostato in queste settimane alla panchina dell’Inter, Diego Simeone è l’unico che potrà tenere alto, almeno simbolicamente, il nome del nostro calcio in questa competizione. Una Coppa così italiana solo qualche anno fa, tanto quanto estranea al pallone nostrano negli ultimi 10 anni.
Da tempo la Coppa Uefa soffre di un complesso d’inferiorità rispetto alla più allettante Champions League, tanto da riceverne gli scarti di preliminari e gironi. A soffrire più di tutti di questa sudditanza sono le squadre italiane, che ormai da troppo tempo mancano dagli atti finali di questo trofeo. E pensare che tra 1989 e 1999 il nostro calcio propose addirittura 14 finaliste e 8 vincitrici: 10 anni in cui la Serie A era il meglio che l’Europa potesse offrire. Quando in Coppa Campioni iniziava lo strapotere del Milan, la Coppa Uefa salutava l’ultimo exploit del grande Napoli di Maradona e Careca, campione sullo Stoccarda di Klinsmann. Nei due anni successivi addirittura la finale parlò solo italiano: la Juve trionfò sulla Fiorentina nel 1990, mentre nell’91 fu l’Inter a superare la Roma. A un passo dal successo ci arrivò persino il Torino di Casagrande e Lentini, sconfitto dall’Ajax solo grazie ai gol fatti in trasferta (allora le finali erano ancora andata e ritorno): ad Amsterdam un’infuriato Mondonico regalò una delle scene più assurde del calcio, in protesta ad un rigore non concesso, brandendo in aria una sedia della panchina (il Mondo fu punito con una squalifica che non ha ancora potuto scontare!). E come scordare le imprese del mitico Parma di Nevio Scala, incredibilmente vittorioso nel 1995 sulla Juventus? Un successo che i ducali replicarono nel 1999 sotto la guida del vulcanico Malesani con un 3-0 secco sull’Olympique Marsiglia (i francesi uscirono con le ossa rotte dalla semifinale col Bologna, decimati dalle espulsioni per una rissa nel finale).
Ma la vera regina fu l’Inter. 4 volte in finale, 3 volte iridata, battendo Roma, Austria Salisburgo e Lazio. Che match quello del 1998 al Parco dei Principi di Parigi: Zamorano, Zanetti, Ronaldo i marcatori, in una partita che Gigi Simoni preparò perfettamente e che vide, tra i suoi protagonisti, anche lo stesso Diego Pablo Simeone. Sono tempi ormai andati: ora il nostro calcio si presenta alla Coppa Uefa con squadre rattoppate alla bell’e meglio, infarcite di seconde linee più o meno promettenti, in grado di impallidire anche di fronte ad anonime compagini dell’est Europeo. Un anno fa fu la Juve a rimediare una figura barbina di fronte al “temibile” Lech Poznan, mentre la scorsa estate i leoni svizzeri del Sion sbatterono fuori il Palermo di Miccoli. E se dopo il 2000 i soli due club ad essere arrivati in semifinale sono stati Lazio (2003) e Fiorentina (2008), quest’anno i biancocelesti, insieme all’Udinese, si sono dovute arrendere tra sedicesimi di finale e ottavi, mostrando un gioco buono, ma non all’altezza delle altre squadre europee, che invece paiono tenere sempre più in considerazione l’Europa League.
È così: l’apprezzamento che le italiane danno a questa competizione è sempre più basso e l’impegno è inferiore a quello degli altri club, che se nei primi match si permettono di giocare con le riserve, più la competizione va avanti e più sfruttano il talento delle loro prime linee. È vero, le due spagnole arrivate quest’anno in finale non hanno intrapreso un campionato straordinario in patria e sul loro rendimento certamente ha giocato un ruolo chiave il costante impegno in Europa, con partite ogni 3-4 giorni. E se non si può pretendere che i giocatori riescano ad essere fisicamente al top per tutti gli impegni, resta un quesito per tecnici e club: vale di più sognare la finale di un trofeo europeo oppure lottare per terzo e quarto posto nel campionato italiano?