Degni di nota
“Ecco”, intervista a Niccolò Fabi: «Il mio disco è come il gesto dell’arciere che rimanda ad altro»
Ecco è il titolo del nuovo album di Niccolò Fabi. Il più bel disco di un’artista italiano di questo 2012. Un lavoro collettivo a rappresentazione della convinzione che l’esperienza personale debba essere sempre il punto di partenza, lo stimolo, per ogni riflessione e crescita di gruppo, proprio in quanto condivisa. Un’opera che, per certi aspetti, sembra più frutto dell’entusiasmo di un esordiente che di un artista ormai al suo settimo disco, realizzato con l’attitudine di chi pensa molto più a seminare che a raccogliere, di chi si sente all’inizio della salita e non sulla cima. Unica grande differenza rispetto agli esordi sono le increspature di una voce che, alla sua naturale delicatezza, ha aggiunto lo spessore e la consapevolezza di un uomo adulto.
Ci può spiegare da dove nasce il titolo “Ecco” e l’immagine in copertina?
Titoli e copertine devono essere evocativi perché non possono raccogliere tutto il contenuto di un disco. Mi sono convinto che il titolo dovesse essere sintetico e immediato, visti gli innumerevoli spunti presenti nel mio lavoro. Desiderio che chi impugna il disco si renda conto che si trova di fronte a qualcosa di concreto, non solo sperato e immaginato. Il gesto dell’arciere è un movimento ambizioso che rimanda a qualcos’altro. Rappresenta la forza nella sua concezione più globale e nobile.
Al suo ultimo disco hanno collaborato molti artisti (Roberto Angelini, Pier Cortese, ha registrato negli studi di Roy Paci). È interessante questa sua capacità di coinvolgere colleghi di così notevole maturità artistica. Nel fare questo tipo di musica, qual è il tuo primo interesse?
Fare le cose migliori. Insieme si fanno cose migliori che da soli. Soprattutto a questa età. Quando si è più giovani, si cerca di mettersi alla prova da soli anche per scoprire quali siano le nostre caratteristiche e i nostri limiti. A una certa età, una certa consapevolezza dei propri mezzi fa sì che si cerchi la collaborazione, la coralità.
Ha impiegato tre settimane per registrare il disco: quale il ricordo più bello?
L’atmosfera, sicuramente. Un’atmosfera simile a quella di un gruppo di sedicenni che sono in cantina a suonare, con trent’anni di differenza, qualche nozione in più e qualche perdita di tempo in meno. L’atteggiamento e le motivazioni dopo trent’anni non sono cambiati. Una storia che sarebbe bello raccontare a un sedicenne che oggi è in cantina a suonare.
A un giovane che volesse per la prima volta avvicinarsi alla sua musica, potrebbe indicare tre canzoni che rappresentano gli snodi cruciali della sua carriera?
Escludendo l’ultimo disco che è troppo fresco e non riesco a metterlo in prospettiva con tutti gli altri, il tempo mi dirà quali di queste canzoni sono più rappresentative di altre, dovendone scegliere tre direi: “Solo un uomo” (dal disco omonimo): “Costruire” dal disco Novo mesto; “È non è” dalla Cura del tempo.
Nel brano “Indipendente” domanda: «Ma chi è davvero indipendente? Tu vuoi essere indipendente… è poi felice chi è indipendente da tutto?». È possibile essere indipendenti e restare amanti di tutto?
È vero. Questa è la domanda posta dalla canzone. Penso che i brani siano delle premesse, pongano delle questioni. Non debbano dare risposte. In pochi minuti è difficile dare riposte. A me interessava sollevare la questione. Nel concetto d’indipendenza c’è molta attualità. È una parola usata in vari ambiti della vita e, fino ad un certo punto, risponde a un giusto desiderio d’identità, oltre una certa soglia diventa scusa per non impegnarsi o rivendicare una finta autonomia.
Una delle canzoni più belle dell’album è sicuramente Sedici modi di dire verde. Come mai questo titolo?
Nasce da una mia antica lettura. In una comunità tribale dell’Amazzonia un antropologo ha scoperto che nel linguaggio elementare di queste tribù esistevano sedici parole diverse per indicare le varie tonalità del verde. Questo mi ha fatto pensare come l’approfondimento nei confronti delle cose viaggi su binari paralleli secondo le condizioni di vita. Noi nella nostra civiltà abbiamo trovato mille sinonimi della parola malinconia o nostalgia, che forse nella tribù non esiste nemmeno, loro sedici parole per dire verde.
Nella stessa citata canzone dice: «E il mio tutto si ostina a cercare una via». Qual è la strada per Niccolò Fabi?
È una strada. L’ostinarsi a cercare una via è una dinamica molto più importante che aver deciso una strada. Mi sembra molto più importante accorgersi di avere bisogno di una strada da percorrere piuttosto che definire quale sia la strada in senso stretto.
Nella canzone “Il negozio di antiquariato” invita coloro i quali hanno meno di cinquanta anni a spegnere la televisione. Che giudizio ha della televisione di questi ultimi anni?
Non sono un amante della televisione perché, amando la musica, mi rattrista vedere come questa sia trattata in tv. Non amo il tono finto che molte volte si ascolta nei programmi. Non penso che la tv abbia fatto bene alla politica, anzi l’ha trasformata in televendite dal sapore sensazionalistico. Poi tutto il linguaggio irreale che avvolge il mondo del piccolo schermo, generalmente, m’infastidisce. Nelle tv tematiche riesco a trovare molto di più quello che m’interessa: film e sport principalmente. L’informazione e il varietà in tv ormai non hanno alcuna cura artistica e tendenzialmente li trovo molto sciatti.
Nel 2011 lei ha tenuto un concerto al Meeting di Rimini. Che cosa ricorda di quell’esperienza?
Ricordo un’atmosfera molto partecipata e calorosa. Un concerto molto bello. Del Meeting come evento, posso dire che, personalmente, sono più vicino a un cattolicesimo più spirituale. Nel Meeting si vede chiaramente un cattolicesimo più strutturato e interessato a tutti gli aspetti della realtà.
Com’è lo stato della musica pop in Italia?
Credo che ci sia una grande ricchezza di proposte. Un ascoltatore di musica italiana può trovare varie realtà: da Gigi D’alessio a Marta sui tubi, da Caparezza a Ramazzotti a Niccolò Fabi. Cose diverse. C’è un ventaglio di proposte per cui chi è un amante della musica non dovrebbe sottovalutare quella italiana. C’è tanta roba corrispondente a gusti diversi.
Quale musica ascolta Niccolò Fabi?
Mi piace ascoltare musica americana perché sono molto sensibile ai testi. L’ascolto musicale rappresenta anche un momento di evasione, non avendo la stessa capacità di percepire la bellezza, l’esattezza e la profondità dei testi in inglese fa sì che io vada incontro ai dischi di Bon Iver o Sufjan Stevens, per citarne solo alcuni, con maggiore libertà e goda solamente delle trovate sonoro-musicali. In italiano alcuni testi mi rovinano l’ascolto. Sono molto vicino a quella figura di cantautore intimo, malinconico e allo stesso tempo corale e da band che in Italia esiste poco.
A inizio 2013 parte il suo tour, ci può svelare qualche curiosità e qualche anteprima?
Non posso svelarle molto perché le prove devono ancora iniziare. Lo spettacolo si sta delineando nella mia mente. Quando inizieremo a provare capiremo se le idee trovano la giusta affermazione nella pratica. Rispetto allo spettacolo dello scorso anno, dove ero in solitario e mi caricavo di tutta la responsabilità, questo sarà un concerto corale che testimonia tutta la gamma di atmosfere presenti nel disco: dalla gioia al dolore sino all’ironia. Lavoro per far sì che io possa portare in giro il più bello spettacolo di sempre, com’è giusto che sia. In questo tour nei teatri avverto ancor più la responsabilità di proporre uno spettacolo all’altezza delle location che mi ospiteranno.
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