E dopo l’amnistia? «Fate lavorare i carcerati e vedrete: in galera non ci tornano. L’ostacolo non sono le risorse»

Di Francesco Amicone
20 Ottobre 2013
Parla Nicola Boscoletto, responsabile della cooperativa Giotto, che insegna un mestiere ai detenuti di Padova. Un progetto "modello" elogiato da molti (anche nelle istituzioni) ma non ancora imitato

La cooperativa Giotto da più di vent’anni si occupa della rieducazione dei detenuti del carcere Due Torri di Padova. Li educa al lavoro. Fra le sbarre, i carcerati, imparano a fare i giardinieri, i cuochi, gli operai. A lavorare.

Fino al 2001, la cooperativa si occupava esclusivamente dei condannati che scontavano la pena con misure alternative al carcere, ottenendo come risultato un abbattimento della recidiva, che arrivò al 15 per cento. «Poi – racconta a tempi.it Nicola Boscoletto, presidente del consorzio sociale Giotto – abbiamo deciso di fare la stessa cosa con chi sconta la pena in galera. Abbiamo fatto un ragionamento elementare: se i condannati iniziano a lavorare durante gli anni della pena, la recidiva diminuisce ancora». Giotto non cura i disagi sociali ma punta alla qualità e alla professionalità nel lavoro (non per niente i galeotti che lavorano per la cooperativa producono un ottimo panettone). «Il risultato del nostro impegno è che ora nove detenuti su dieci che lavorano con noi non tornano più a delinquere. Si inseriscono nella società, una volta usciti, e trovano una nuova strada per ritrovare la propria dignità nel lavoro».

Questi risultati si possono ottenere in altre carceri?
I nostri risultati sembrano eccezionali. Non dovrebbero esserlo. Dovrebbero essere la normalità. Le persone che scontano una condanna in carcere, avendo subito una privazione della libertà, devono essere rieducate al lavoro. Altrimenti non serve a nulla scontare la pena. Bisogna ripristinare una normalità. Mi è piaciuta la ministra della Giustizia, Anna Maria Cancellieri, quando ha detto, in un incontro avuto qui a Padova che, se queste cose si fanno alle Due Torri, a Bollate, Torino, Roma, si devono fare ovunque. Non ci sono impedimenti a che ciò avvenga se non aspetti culturali e ostacoli di tipo fisico, che vanno rimossi: bisogna far sì che le carceri siano adatte al lavoro e non il lavoro alle carceri.

In che senso? Per farlo non c’è bisogno di investimenti? Il carcere di Padova e quello di Bollate sono strutture nuove. Non è questo a fare la differenza?
La differenza la fanno le persone. Gli ostacoli di tipo culturale o fisico li determinano le persone. Le cose non si fanno non perché ci sono strutture inadeguate, ma perché le persone non si impegnano. Sono gli enti locali, le fondazioni bancarie, l’amministrazione penitenziaria, i commissari di polizia, i magistrati, le associazioni, le imprese private a doversi muovere. Quando si trova un direttore di carcere illuminato, quando si trovano persone di una associazione che fanno il proprio lavoro, imprenditori privati che credono nelle imprese sociali, gli ostacoli si possono superare. Poi c’è l’ultimo ostacolo che è il concetto di produttività e qualità, che rimane un tabù per il settore pubblico.

Fuori dal carcere, gli ex detenuti riescono a ottenere un lavoro?
Sì. Quando i detenuti trovano la propria dignità, quando imparano a meritarsi lo stipendio con il sudore della fronte, non vogliono più tornare a delinquere. Da noi i detenuti imparano un metodo per vivere nella realtà. Un metodo che li aiuta a non trovarsi più a ricorrere alla delinquenza. Quando escono dal carcere riallacciano i rapporti e trovano lavoro come operai, giardinieri, cuochi. Se perdono il lavoro aspettano di trovarne un altro. Si reinventano. Sanno che devono lavorare per guadagnarsi da vivere.

Oggi si parla di amnistia per risolvere l’emergenza del sovraffollamento carcerario. Cosa ne pensa?
Tanto di cappello al presidente Giorgio Napolitano che sta denunciando da tempo la situazione del sistema penitenziario italiano, e chiedendo che i condannati siano rieducati come sancito dalla Costituzione. Il carcere italiano non è solo un problema per la dignità dei detenuti, ma per la dignità di 60 milioni di italiani. Un problema di civiltà per l’occidente e per l’Italia. Se calpesti la dignità dei detenuti, la responsabilità è di tutti i cittadini. L’amnistia non farà magie. Soprattutto perché il carcere è come un campo abbandonato da trent’anni dove cresce la gramigna. Ma bisogna farla. E contestualmente all’amnistia bisogna fare le riforme, perché i problemi non si risolvono spostandoli nel tempo, come accadrebbe se ci fosse soltanto l’amnistia.

Quali riforme andrebbero fatte?
Primo, bisognerebbe eliminare la coincidenza fra pena e carcere. Chi lo ha detto che ci deve essere una detenzione in carcere per ogni reato? Bisogna usare le misure alternative, bisogna puntare alla rieducazione. Le soluzioni per persone e reati diversi non possono essere uguali. Serve varietà. Servono depenalizzazioni. Servono strumenti per la salute, il lavoro, la scuola. E una volta per tutte bisogna fermare l’uso che si è fatto in questi anni della custodia cautelare. Deve essere applicata solo ai casi veramente necessari. Non è possibile che 20 mila detenuti aspettino un processo in carcere.

Il carcere come dovrebbe essere concepito?
Per la rieducazione. Le persone devono capire che il modello applicato in Italia non fa veramente espiare la pena. Tenendoli lontani dal mondo, i carcerati non espiano la pena. Si nascondono dalla realtà. Lì nessuno li vede e vengono loro calpestati i diritti. Alla fine si sentono liberi di dire: anche a noi ci hanno fatto dei torti, quindi in fondo quello che abbiamo fatto non è più importante. Una posizione di comodo che non aiuta a fermare la recidiva. Invece bisognerebbe farli confrontare con la realtà per farli cambiare. Mi ricorderò sempre un episodio che accadde a un pluriomicida, venuto con noi alla mostra di Giotto al Meeting di Rimini 2008.  Stava presentandosi a un gruppo di persone, raccontando loro la sua vita, e a un certo punto una bambina di otto anni gli ha chiesto: «Ma prima di uccidere non potevi pensarci due volte?». Lui si è bloccato: «Hai ragione», le ha detto. Ed è corso da me. Non voleva più farsi vedere. Io e gli altri, invece, lo abbiamo ributtato nella mischia. Aveva appena iniziato a scontare la pena.

Articoli correlati

0 commenti

Non ci sono ancora commenti.