A due anni dall’uccisione di padre Frans, l’ultimo sacerdote di Homs
Sono passati due anni da quando padre Frans van der Lugt è stato barbaramente ucciso in Siria, a Homs, il 7 aprile 2014. Il missionario gesuita olandese è stato assassinato a 76 anni (50 passati in Siria), in casa sua, da uomini armati. Nel mezzo della guerra siriana, lui non aveva mai voluto andarsene dalla Città vecchia di Homs, in mano ai ribelli islamisti e assediata dal governo, per «non lasciare soli» gli ultimi 66 cristiani rimasti.
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]«È UN SANTO». Come dichiarato l’anno scorso dal gesuita Ziad Hilal, padre Frans è già considerato «un santo» in Siria, tanto che «il Vaticano dovrebbe riconoscerlo. Ha vissuto come madre Teresa». Oggi il Jesuit Refugee Service gli ha dedicato un articolo, ricordando come «ci sia solo una persona in grado di cambiare istantaneamente l’umore di adulti e giovani [a Homs] non appena se ne fa il nome: Frans van der Lugt» o come veniva comunemente chiamato “Abouna Frans”. «Lui vive ancora nei loro cuori e nelle loro menti ed è per lui che molti pensano che ci sarà una nuova alba».
«CONDIVIDERE IL DOLORE». Aiutando cristiani e musulmani, accogliendo chiunque («io non vedo cristiani o musulmani, prima di tutto vedo esseri umani», diceva), è rimasto a Homs come l’ultimo sacerdote, mentre tutti scappavano, per un semplice motivo: «Il popolo siriano mi ha dato così tanto, tutto quello che aveva. E se ora la gente soffre, io voglio condividere il loro dolore e le loro difficoltà». È quello che ha fatto: «Le facce della gente per strada sono deboli e giallognole», disse un giorno a un giornalista. «I loro corpi hanno perso forza. Io provo ad aiutarli non analizzando i loro problemi, che sono ovvi e non hanno soluzione. Io li ascolto e gli do tutto il cibo che ho».
PIÙ DI UN DIALOGO INTERRELIGIOSO. L’autore dell’articolo, padre Cedric Prakash, ricorda anche le parole scritte su di lui dall’Economist: «Stando nel cuore della città assediata di Homs durante la conquista dei ribelli, tra cui molti islamisti, e poi durante l’assedio del governo, ha soccorso tutte le vittime del conflitto e rimproverato tutti i belligeranti. Ha rischiato consapevolmente la sua vita rimanendo in un posto dove erano attivi i ribelli islamisti ma anche dato testimonianza delle crudeli conseguenze dell’assedio, rifiutandosi di andarsene quando sarebbe stato facile farlo e nessuno l’avrebbe criticato. Dalla sua prospettiva, tutte le vittime civili erano degne di compassione e tutti i combattenti condividevano una parte di colpa». Abouna Frans, insomma, ha fatto molto di più di un semplice «dialogo interreligioso», è stato «fonte di speranza». E «molti a Homs e in altre parti della Siria sono convinti che il suo martirio non è stato vano».
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