
C’è qualcosa di stupefacente nella tanto attesa VI Conferenza nazionale sulle dipendenze che inizia oggi a Genova: la stragrande maggioranza di chi si sporca le mani e lotta corpo a corpo contro droga e dipendenze non ci sarà.
Non è stata invitata: non c’è posto accanto ai dieci ministri convocati da Fabiana Dadone, responsabile delle Politiche giovanili con delega all’Antidroga, per un tavolo di confronto tra i rappresentanti della prima linea che per 12 anni – tanto è passato dall’ultima Conferenza – si sono accollati con fondi sempre più ridotti e con le proprie sole forze il problema di tossici e sofferenti di ogni tipo di dipendenza in tutta Italia.
Dadone lascia a casa comunità e servizi
Dadone fa spallucce: nonostante la lettera appello, pubblicata in anteprima da Vita, firmata dalle reti delle comunità terapeutiche e servizi del privato sociale Comunitalia, F.I.C.T., INTERCEAR, ACUDIPA, Ser.Co.Re e A.C.T.A., per denunciare l’assurda assenza di un confronto a Genova, il ministro rilascia interviste parlando di «problemi organizzativi», assicurando che tutti gli attori del settore hanno partecipato ai tavoli preparatori della Conferenza e che le loro proposte verranno senz’altro dibattute. Peccato che i “tavoli” altro non fossero che riunioni online (sette) coordinate dall’entourage del ministero per raccogliere di fatto contributi senza dibattito, nessuna messa a sistema e condivisione di una proposta integrata e strutturata in una visione di insieme.
Il programma della Conferenza invece è sotto gli occhi di tutti: oltre alla passerella dei ministri, a firmare le relazioni che verranno inviate al Parlamento per aggiornare e riformare il Testo unico del 1990, saranno esperti di carceri, psichiatria, welfare, cannabis terapeutica, sicurezza, narcotraffico, esponenti di istituti di ricerca, osservatori.
Presenti gli sponsor della riduzione del danno
Qualcuno “con le mani in pasta” c’è: ovviamente non manca il Gruppo Abele di don Ciotti, main sponsor della strategia di sanità pubblica della “riduzione del danno” (legalizzazione della cosiddetta droga leggera, ambulatori e nuclei mobili che distribuiscono siringhe sterili, terapie al metadone, eccetera). Lo stesso don Ciotti che con Cnca ha animato ieri la contro-conferenza sui temi esclusi dai tavoli istituzionali, come appunto depenalizzazione, decriminalizzazione, legalizzazione con lo slogan “Stop war on drugs. Facciamo la pace con le droghe e con chi le usa”. Nel programma anche il ministro della Conferenza ufficiale e ciò non stupisce essendo Dadone un ministro orgogliosamente antiproibizionista «da tempi non sospetti»: «Certo – dice il ministro ad Avvenire – in Conferenza si parlerà anche di cannabis a uso medico che è un tema che mi sta particolarmente a cuore e di produzione di canapa. Ma la cannabis non è l’unico fronte, anzi».
Ma dove sono gli altri rappresentanti del sistema dei servizi, del pubblico e del privato sociale, che muovono da altri punti di vista? Quelli presenti a Genova si contano sulle dita delle mani (per capirci Pietro Farneti, presidente Ser.Co.R.E – Servizi Comunità Reti Educative, tra i firmatari della lettera appello, verrà ascoltato ma nell’ambito dell’incontro “Riuso sostenibile e circolare di spazi urbani condivisi”). Come faranno i ministri a deliberare su droga e dipendenze senza ascoltare, incontrare, chiamare al confronto approcci e sensibilità diverse degli operatori del settore al fine – come recita l’articolo 1 del Testo unico sugli stupefacenti – di «individuare eventuali correzioni alla legislazione antidroga dettate dall’esperienza»?
A Genova esperti «lontani dalle dipendenze»
«Sono 12 anni che chiediamo con forza di affrontare le dipendenze. La realtà era già lontana anni luce dai temi usciti dall’ultima Conferenza di Trieste, ma nella fase preparatoria della conferenza di Genova le riunioni hanno presentato i limiti della comunicazione online e avevano reso difficile se non impossibile qualsiasi dibattito aperto e completo sui vari temi», spiega a Tempi Giuseppe Mammana, presidente della Associazione italiana per la cura delle dipendenze patologiche, rete di comunità e servizi di privato sociale. «Oggi e domani a Genova il canovaccio si ripete in peggio prevedendo relazioni di esperti spesso distratti e lontani dal settore delle dipendenze, caratterizzati da una scelta nettamente orientata alla prevalenza della riduzione del danno, con l’assenza dei professionisti e delle reti che da venti anni almeno si occupano di tossicodipendenze secondo i principi scientifici, clinici e riabilitativi della recovery».
Nessuna possibilità di confronto aperto tra approcci diversi ed esperienze di comunità e professionisti del servizio pubblico e privato è stata concessa, «eppure siamo noi che abbiamo ripetutamente sollecitato la necessità di convocare la Conferenza che la legge fissava ogni tre anni, e che abbiamo partecipato con passione a questi incontri virtuali sperando finalmente in una presa in carico da parte delle istituzioni competenti di questa emergenza, aggravatasi nel periodo della pandemia».
Si tifa “prestazioni”, non comunità
Ma in cosa differisce l’approccio del ministro Dadone da quello delle reti di comunità? «Intanto sul metodo: senza integrazione tra gli attori del sistema territoriale non c’è presa in carico della persona. Lo “spacchettamento” del sistema delle rette per l’accoglienza dei pazienti in comunità verso un modello di prestazioni retribuite con quelle risorse, configura un modello “prestazionale” che frammenta compiti e responsabilità. Cosa che difficilmente può funzionare con persone appunto “frammentate” e sempre più spesso “polidipendenti”, non solo da sostanze stupefacenti ma anche da comportamenti diversi. Questo significa che occorre puntare all’integrazione tra percorsi terapeutici, di riabilitazione, cura e reinserimento adeguatamente finanziati, ma anche investire sulla prevenzione. Sono anni che non vengono finanziati progetti nelle scuole, che non vengono veicolati messaggi educativi chiari e percorsi sistematici. L’iniziativa spot non serve, è dannosa, riduce la prevenzione a slogan».
Per ragionare in termini di prevenzione è inoltre necessaria una presa in carico precoce, ed è «fondamentale che giovani e soggetti a rischio vengano inseriti in percorsi diversi e distinti da quelli dei “cronici” per non creare promiscuità tra aree devianti»; quanto al reinserimento «si metta mano alle risorse, non basta pensare di riciclare il poco che c’è». Dadone vanta di avere ottenuto in legge di bilancio, per quest’anno e l’anno prossimo, lo stanziamento di 4 milioni di euro per il Dipartimento delle politiche antidroga, ma le reti di comunità e di servizi del privato sociale chiedono con forza il ripristino del Fondo nazionale e regionale per la lotta alla droga confluito in quello delle Politiche sociali, puntando a raggiungere come spesa ordinaria per le dipendenze in ogni regione almeno l’1,5 per cento dell’ammontare totale del fondo sanitario. Tra i tanti bonus erogati nell’edilizia bisogna inoltre pensare a risorse da destinare al rinnovamento degli immobili degli enti addetti alla cura ed alla riabilitazione, «ormai inadeguati agli spazi richiesti dalle varie forme di dipendenza così come fu nella legge Jervolino Vassalli».
Budget di Salute? Non ricatti chi si droga
Il ministro sta ragionando sull’introduzione di un “Budget di Salute” nell’ambito delle dipendenze patologiche, una sorta di reddito derivante dalle attuali rette da “spacchettare” nei diversi interventi sociali e sanitari, ambulatoriali o residenziali, «ma perché possa funzionare è indispensabile che esso si aggiunga al poco che c’è, non sottraendo risorse alle attuali, né scompaginando le attuali comunità riabilitative».
Da qui la preoccupazione che ci sia una strettissima integrazione territoriale e che la spesa non ricatti i sofferenti: «Un tossicomane non ha potere contrattuale e non può essere messo nelle condizioni di dover scegliere tra un luogo di pieno e individuale recupero, come una comunità, e le prestazioni erogate da diverse realtà e sportelli. Egli deve avere anche la possibilità di scegliere liberamente i luoghi di cura in tutto il territorio della nazione. Ciò allarga le possibilità della cura stessa, realizza il principio costituzionale della libera scelta del luogo in cui riceverla, e sottrae singoli e famiglie ad obblighi burocratici che poco hanno a che fare con la tutela della salute».
«Impariamo dagli Smi lombardi»
A questo proposito è fondamentale, e richiesta a gran voce dal mondo degli operatori, «la definizione di linee guida nazionali che possano costituire base normativa di riferimento, e omogeneizzare gli interventi nelle diverse regioni». Mammana conferma che ogni Regione segue politiche (e assegna budget) differenti e che la sola rete del pubblico non è assolutamente in grado di affrontare il problema droga e dipendenze, «sia chiaro: non è delegando alla rete pubblica, che pure è fondamentale potenziare, che daremo la svolta necessaria. La via per facilitare e migliorare le cure è quella dell’accreditamento del privato sociale, sul modello dei Servizi Multidisciplinari Integrati (Smi) in vigore in Regione Lombardia. Si tratta di un’esperienza laica e di successo che può, anzi, deve fare scuola se non vogliamo assoggettare il problema della dipendenza al burocratismo totalitario di certi apparati pubblici forti soprattutto nel sistema della salute mentale. Le dipendenze hanno caratteristiche, tempi, cure e approcci diversi e ogni persona ha bisogno di un programma personalizzato individuale non solo terapeutico, ma anche sociale ed educativo. Ci sono tantissime realtà, volontari, professionisti in ogni regione, ma queste esperienze vanno messe a fattor comune, integrate, vanno aiutati ad aiutare. Con le risorse, l’integrazione, e con la formazione».
Su questo Mammana non transige: «La portata delle dipendenze in Italia richiede professionisti adeguati in campo sanitario e sociale, una disciplina di clinica delle dipendenze introdotta nelle facoltà sanitarie e socio educative, scuole di specializzazione e master per formare psicoterapeuti e psichiatri nei problemi delle polidipendenze».
«No alla normalizzazione della droga»
C’è poi un punto. Fermo e condiviso da tutti i professionisti in trincea nella lotta alla droga e alle dipendenze mentre in Italia si vive in piena campagna da referendum per la cannabis legale: «La normalizzazione non ci piace. Siamo fermamente contrari a ogni approccio che voglia consolidare le fasce di consumatori nell’uso di sostanze: questa visione ha già prodotto ingenti danni, soprattutto nella popolazione giovanile. Non si tratta di stigmatizzare o considerare “reato” una dipendenza, perché siamo contrari a ogni forma di carcere per il consumatore di droga. Occorre credere e investire risorse in primis nell’educazione e nella proposta di un messaggio educativo che proponga un orizzonte di vita libero dalla droga. Se non convincesse il principio, si faccia un calcolo: se qualcuno ci tiene a fare il gioco delle multinazionali, promuovendo l’accompagnamento al consumo e alla produzione a beneficio delle casse dello Stato, si considerino i costi. Entrate e uscite. Istituiamo un gruppo di lavoro tecnico nazionale e indipendente, diamogli dieci mesi per studiare e valutare costi e benefici e poi scegliamo quale approccio conviene di più Noi parteciperemmo volentieri ad una esperienza del genere».