Dovrebbero chiamarlo reddito di sudditanza
Articolo tratto dallo speciale dedicato al senso del lavoro nel numero di Tempi di giugno 2019. Per leggere gli altri contenuti dello speciale, clicca qui.
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E se potessimo tutti vivere senza lavorare? Se lo Stato erogasse a ogni cittadino, dalla nascita fino alla morte, un assegno mensile a prescindere dalla sua condizione e dalle sue attività? Se ciascuno di noi ricevesse uno stipendio universale, incondizionato e sufficiente per condurre un’esistenza dignitosa? È questo il mondo sognato dai sostenitori del reddito universale di base (Ubi), un mondo che Anna Coote definisce «spaventoso e pericoloso». L’analista oggi è a capo della ricerca in politiche sociali della New Economics Foundation, già membro della Commissione britannica per un futuro sostenibile e in passato direttrice della politica sanitaria del think tank King’s Fund. Il suo ultimo lavoro è un rapporto stilato per la Public Service International, federazione che riunisce sigle sindacali di tutto il mondo, Italia compresa, dal titolo: Reddito universale di base. Un punto di vista sindacale.
A capo di un gruppo di ricercatori, Coote ha analizzato 16 tentativi di introdurre il reddito universale di base in tutto il mondo, sia in paesi poveri (India, Malawi, Kenya), che in paesi ricchi (Canada, Stati Uniti, Finlandia, Olanda). Gli esperimenti analizzati differiscono a seconda di quanto spesso i pagamenti vengono fatti, quanto a lungo, chi ha diritto a riceverli e come queste elargizioni di denaro influiscono su altre forme di protezione sociale. Tra i progetti studiati c’è quello portato avanti da Unicef e Give Directly, charity sostenuta da Google, che hanno regalato piccole somme di denaro a famiglie molto povere in villaggi dell’India e del Kenya per permettere l’avvio di un’attività fondamentale all’autosostentamento. Sotto la lente di ingrandimento è finita anche l’Alaska, che paga una somma annuale variabile a tutti gli adulti e i bambini a seconda dei proventi della vendita del petrolio: nel 2018 ha elargito 1.430 euro a testa. Interessante anche il progetto della Finlandia, che ha versato a duemila disoccupati tra i 25 e i 58 anni 560 euro esentasse al mese per due anni. Nessuno dei 16 progetti analizzati ha raggiunto gli scopi prefissati o si è dimostrato sostenibile se allargato universalmente a tutti i cittadini.
La conclusione dello studio dunque, ribadita da Coote in questa intervista a Tempi, è tranciante: «Il reddito universale di base per essere efficace deve essere insostenibile e per essere sostenibile deve essere inefficace».
Non è pensabile una via di mezzo?
No, perché l’Ubi secondo i suoi proponenti è un assegno universale, distribuito in modo incondizionato. Anche i progetti che abbiamo studiato non possono essere definiti dei veri e propri esempi di reddito universale di base, dal momento che le somme sono state distribuite solo per un periodo limitato di tempo, riservate a una platea circoscritta di persone a seconda del reddito o della posizione lavorativa. Potremmo dire dunque che il reddito universale di base, nei fatti, non esiste nemmeno.
Se esistesse, però, potrebbe risolvere diversi problemi.
Secondo i suoi difensori, dovrebbe eliminare povertà e disuguaglianze, garantendo ai cittadini una rete di sicurezza per proteggerli dall’avvento dei robot nel mercato del lavoro.
Niente male.
Non direi, visto che non c’è alcuna prova che funzioni. L’unico effetto certo dell’Ubi sarebbe la distruzione dello Stato sociale così come lo conosciamo. Per versare a ogni cittadino un assegno mensile, lo Stato dovrebbe infatti tagliare dal primo all’ultimo centesimo i fondi a sanità, istruzione, trasporti, previdenza e molto altro ancora.
Il reddito universale di base ha un costo così spropositato?
Secondo l’International Labour Office, che in uno studio ha calcolato il costo dell’Ubi in 130 paesi, la maggior parte degli Stati dovrebbe investire in questo strumento dal 20 al 30 per cento del proprio Pil. I paesi poveri, invece, dovrebbero spendere molto di più.
Perché allora l’idea riscuote tanto successo?
Perché tutti parlano dei benefici del reddito universale di base, nessuno delle sue necessarie conseguenze. È una teoria che va molto di moda oggi, ma è una fantasia pericolosa: non farebbe che mercificare lo Stato sociale.
Che cosa intende?
L’Ubi è una soluzione individualista e mercatista ai problemi creati da un’economia basata sull’individualismo e il libero mercato, come la differenza sempre più marcata tra ricchi e poveri. È in sostanza una capitolazione al neoliberismo e anche se funzionasse non sarebbe pertanto desiderabile.
Perché?
Da un punto di vista generale, alla gente non piacciono i “parassiti”, cioè quelli che vivono a spese dello Stato senza fare nulla. Le persone hanno bisogno di contribuire con il proprio lavoro e le tasse alla costruzione della società. Un mondo dove la gente non lavora, o non si cura del lavoro che fa e di che cosa produce, per ricevere il suo reddito dallo Stato, è spaventoso.
Molti invece lo definirebbero “meraviglioso”.
Proviamo a pensare a quanto potere avrebbe lo Stato. Se lo Stato fosse l’unica fonte di sostentamento dei cittadini, potrebbe farne ciò che vuole. È molto diverso immaginare un sistema in cui i governi aiutano i cittadini a vivere quando questi non ce la fanno a causa di disabilità, vecchiaia o perdita temporanea del lavoro. Noi non siamo contro un sistema che sostiene il reddito dei più svantaggiati. Ma qui c’è sotto una diversa idea di società. Non è un caso, infatti, che l’Ubi sia sponsorizzato dai tycoon della Silicon Valley.
Che cosa c’entrano Google, Amazon e altri colossi della tecnologia?
Sono i primi sostenitori del reddito universale di base, perché il loro obiettivo è quello di avere una popolazione mondiale tranquilla, soddisfatta e con una quantità di soldi sufficiente a continuare a fare shopping. Vogliono delle persone che non debbano preoccuparsi di nulla, dipendenti dallo Stato e quindi impossibilitate a ribellarsi, che abbiano sempre denaro da spendere per tenere in piedi la società dei consumi.
I problemi ai quali l’Ubi vorrebbe porre rimedio però sono reali.
Certo, ma non c’è un solo modo per rispondere. Io ad esempio sto lavorando da una decina d’anni a un modello economico che preveda una settimana lavorativa di 21 ore. Ci sarebbero vantaggi economici, sociali e ambientali.
Anche questa idea sembra difficilmente sostenibile.
Invece lo è, a patto che cominciamo a dare al tempo lo stesso valore che diamo ai soldi. È un sistema che richiede una transizione verso un’economia nuova, un nuovo modo di lavorare, di vivere, di concepire la produzione e di guardare all’ambiente. Da sola, ovviamente, questa nuova settimana lavorativa non basterebbe a risolvere tutti i problemi.
Che cos’altro servirebbe?
Un’idea molto interessante riguarda l’espansione dello “stipendio sociale” attraverso lo sviluppo dei servizi universali di base (Ubs).
Che cos’è lo stipendio sociale?
Si tratta, secondo la definizione dello storico dell’economia R. H. Tawney, di tutti quei servizi essenziali che non paghiamo direttamente ma che sono finanziati attraverso le tasse: la sanità, l’istruzione, i trasporti, le strade, i parchi pubblici, la polizia. La politica denominata Ubs prevede investimenti ingenti per migliorare e rendere accessibili in modo universale trasporti, istruzione, sanità, servizi per l’infanzia, assistenza sociale e informazione. Allo stesso tempo, sarebbe necessario riformare radicalmente e migliorare la previdenza sociale.
Un programma ambizioso.
Non si tratta di un’alternativa magica al reddito universale di base, è semplicemente un modo migliore e più economico per raggiungere gli stessi scopi. Stiamo parlando ovviamente di soluzioni a lungo termine, che richiederanno tempo, investimenti e studi precisi per funzionare.
Non si fida troppo delle capacità dello Stato?
Non sto proponendo di tornare ai “bei vecchi tempi” del comunismo. L’apporto dei privati sarebbe benvenuto, meglio se attraverso organizzazioni no profit. Ci sono molti modi per erogare un servizio. Lo Stato di sicuro dovrebbe garantire: a) l’uguaglianza nell’accesso ai servizi, b) la riscossione e la distribuzione delle risorse per renderli possibili e c) soprattutto fissare gli standard e farli rispettare. La modalità di erogazione e il soggetto erogatore possono cambiare da servizio a servizio. Per noi l’idea di sussidiarietà è fondamentale e riconosciamo che spesso a livello locale, piuttosto che a livello nazionale, i servizi possono essere meglio gestiti.
Gli Stati dovrebbero affrontare però una spesa ingente.
Sì, ma rispetto al reddito universale di base cambia tutto. Non solo il sistema è più economico, ma anche più efficiente e redditizio: come si può definire “spesa” lo stanziamento di fondi per avere un’istruzione davvero equa e di qualità? Sarebbero i nostri figli a essere educati. Io lo chiamerei piuttosto investimento.
Foto Ansa
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