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Dopo la visita di Napolitano a San Vittore, cosa si può fare per le carceri?

Intervista a Luigi Pagano, vicedirettore dell'amministrazione penitenziaria ed ex direttore del penitenziario milanese. «Abbiamo tutti delle responsabilità»

Chiara Rizzo
07/02/2013 - 15:40
Interni
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Sessantasettemila detenuti, per una capienza di 46 mila posti: 20 ore al giorno spesso trascorsi in una piccola cella, in condizioni igienico-sanitarie al di sotto di qualsiasi standard accettabile, e senza alcuna attività – formativa, professionale – che aiuti davvero a fare del carcere un passaggio di riabilitazione sociale, di rieducazione. Questa è la situazione della pena in Italia che ha visto ieri mattina con i suoi occhi il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nella prima visita di un capo dello Stato italiano ad un carcere, quello milanese di San Vittore. Napolitano ha incontrato non solo la direttrice e il capo della polizia penitenziaria, ma gli stessi detenuti, e i volontari. Ha voluto vedere com’è fatta una sezione del carcere, ed ha visitato il sesto raggio, il più “difficile”, entrando nelle celle, ma anche nei bagni, stringendo le mani ai detenuti.
Ne parliamo con il vicedirettore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Luigi Pagano, una lunga esperienza alle spalle proprio come direttore di San Vittore (che, per primo, ha aperto all’apporto dei volontari e alle attività rieducative) e poi come provveditore delle carceri lombarde.

Pagano, cosa ne pensa delle parole di Napolitano? Ha puntato il dito contro tutti coloro che non applicano alle carceri il dettato costituzionale.
Sono completamente d’accordo con il presidente, e non da oggi ma da quando ho cominciato a fare il direttore di un carcere. La colpa non è solo delle carceri ma di tutta la società: se un paese vuole avere delle carceri, dovrebbe prima capire che cosa intende per “pena detentiva”. Oggi la detenzione in Italia è qualcosa che offende la costituzione e tutti noi. Sono parole forti quelle dette ieri, e fa impressione sentirle da un presidente della Repubblica, perché valgono un milione di esempi e di azioni. Hanno un valore devastante in positivo, sulle coscienze di noi tutti.

Cambieranno qualcosa? Oggi entrando al suo ufficio al Dap sente che qualcosa si mette in moto per migliorare le carceri?
Prima della recente sentenza di condanna all’Italia emessa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, noi dal Dap abbiamo iniziato a lavorare su possibili pene alternative alla detenzione. Pensiamo a come aumentare gli spazi, ma anche a come migliorare le condizioni delle celle. Perciò stiamo lavorando alacramente perché le celle siano usate progressivamente solo come luogo di permamenza notturno. Ciò chiama in causa la società perché le attività trattamentali, rieducative, sono soprattutto in carico alla società.

Qualche esempio di ciò che state facendo?
Stiamo creando dei circuiti regionali, per omologare le condizioni dei detenuti, con trattamenti differenziati a seconda della pericolosità, e del tipo di carcere, da quelli ad alta sicurezza a quelli a custodia attenuata. Stiamo lavorando sul problema dei detenuti stranieri, con percorsi particolari per rispondere ai loro problemi una volta usciti dal carcere: una casa o una famiglia che possano riaccoglierli dopo la pena. Ciò porta un’allocazione diversa delle risorse rispetto al passato.

Lei ha diretto San Vittore, è in prima linea da anni per avere delle carceri più umane. Cosa l’ha colpita di più della visita di ieri?
Il richiamo delle donne detenuti ai loro figli. Ieri due detenuti hanno letto un messaggio di saluto al presidente: erano un uomo e una donna. La ragazza ha sottolineato: «Presidente si renda conto cosa significa per noi madri detenute, accontentarsi di una telefonata ai nostri figli una volta ogni due settimane, per dieci minuti, per dire loro che la mamma per il momento non può tornare a casa». È una cosa che strazia il cuore, a me lo tocca in profondità anche se da anni conosco bene questo problema. Per questo noi a Milano dieci anni fa creammo l’Icam (Istituto a custodia attenuata per detenute madri con prole fino a tre anni). Dico “noi” perché le carceri funzionano solo quando si mettono insieme tanto il personale dell’amministrazione penitenziaria e la società civile, tutti.

Tags: carcericostituzionedapGiorgio NapolitanoLuigi Paganosovraffollamento carceri
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