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Don Massimo Camisasca e la tentazione di mettere su famiglia

Più che un’istituzione del passato da difendere, una solida sfida per il futuro. Don Camisasca racconta l’avventura di amare tra le mura domestiche. Dove non serve essere addestrati a svolgere i propri ruoli, ma allenati a vivere. Recensione di Genitori e figli nel mondo di oggi e di domani

Laura Borselli
12/10/2011 - 17:40
Cultura
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Pubblichiamo l’anticipazione dell’articolo “La tentazione di metter su famiglia”, in uscita sul numero di Tempi giovedì 13 ottobre 2011 (numero 41)

«Vi abbiamo aspettato per nove mesi e da allora vi aspettiamo sempre». Si rivolge così a don Massimo Camisasca un’amica di famiglia che lo accoglie sulla porta mentre il sacerdote sta tornando a casa a trovare l’anziana madre. Quelle parole resteranno nel cuore e nella mente del priore della fraternità sacerdotale San Carlo Borromeo. Come restano nel cuore e nella mente tutte le parole e le esperienze vissute in famiglia e che costituiscono la trama intorno a cui si svolge l’ultimo libro di Camisasca. Amare ancora. Genitori e figli nel mondo di oggi e di domani (Edizioni Messaggero Padova). Probabile che si sia interrogato a lungo, Camisasca, sul titolo di un volume dedicato alla famiglia e a certificare che essa «soffre, ma non è morta». In questo titolo c’è una saggezza che percorre le pagine belle di un libro intelligente. Ed è la convinzione che una nuova linfa alla cellula base della società venga da uomini, donne e ragazzi non addestrati ai propri ruoli familiari, ma interrogati nell’intimo. Come persone. Interrogati, cioè sfidati all’amore.

Cosa c’entra la famiglia con l’amore? Tutto, nel côté romantico del Mulino Bianco. Tutto nelle tenerezze delle giovani coppie e nella stucchevole compilazione di corredini e scelte di nomi per bambini. Niente nei matrimoni che naufragano e nei tradimenti. Niente nel dolore dei figli che non arrivano, scappano, restano per crocifiggere i genitori alle proprie incapacità. Niente nelle tragedie folli che si consumano tra le mura domestiche e rimbalzano sulla cronaca lo spazio di un’edizione del mattino. Da questa schizofrenia impietosa che mistifica l’amore alternativamente col romanticismo o il possesso Massimo Camisasca rifugge. E lo fa con la saggezza di un’analisi che dalla fede è illuminata, non edulcorata.

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«La massima sventura è la solitudine, tant’è vero che il supremo conforto – la religione – consiste nel trovare una compagnia che non falla, Dio. (…) Tutto il problema della vita è dunque questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con altri. Così si spiega la persistenza del matrimonio, della paternità, delle amicizie. (…) Mistero perché non ci basti scrutare e bere in noi e ci occorra ri-avere noi dagli altri». Quello che Cesare Pavese analizza nel suo Mestiere di vivere e sconta nella sua vita è lo stesso grido di Telemaco. Diventato adulto il figlio dell’eroe dell’Odissea ha ancora un debito irrisolto col proprio passato, che gli impedisce di essere davvero certo di se stesso. Non vede suo padre da vent’anni. «Se tutto avvenisse conforme al desiderio dei mortali – invoca rivolgendosi all’Olimpo – per prima cosa vorrei il ritorno del padre». Per Pavese è l’irrisolta compagnia, per Telemaco la nostalgia di un uomo imprigionato nella memoria dell’infanzia. In una successione avvincente di citazioni laiche e sparse nei secoli e nei generi (c’è spazio per Pirandello e pure per Renato Zero), Camisasca rintraccia “l’originale dipendenza” connaturata a ogni uomo. L’apprendere che non si è in grado di darsi la vita da soli spalanca il desiderio di uscire da se stessi. Un desiderio che con la grazia di un incontro esplode in autocoscienza. «Dio veramente grande! Dio veramente buono! Io mi conosco ora, comprendo chi sono», dice l’Innominato dopo essersi lasciato abbracciare dal cardinal Borromeo. «La scoperta di un amore che ci precede e ci vuole – scrive Camisasca –, genera in noi quello stupore e quella gratitudine che è la molla segreta e nascosta di tutta la vita: l’origine del lavoro, della donazione e del sacrificio».

Altro che perfetti
Nei racconti e nelle esperienze delle numerose famiglie che incontra e di cui è amico Camisasca non concede nulla a quell’immaginario mieloso che alimenta il marketing della famiglia perfetta. «Quando parlo dell’amore come dono, non intendo una dissipazione di sé, una corsa dietro qualunque richiesta, una rincorsa dei bisogni degli altri e delle loro pretese. Chi fa così non costruisce nulla. E alla fine si trova soltanto svuotato e deluso». In questa prospettiva vengono affrontati quelli che di solito appaiono temi spinosi. Dalla fedeltà alla contraccezione, dall’aborto ai diritti delle donne, dalla scarsa tutela sociale della maternità alla sua perdita di senso. Camisasca non riassume dottrine né lancia anatemi, ma affronta ogni tema muovendo dalla convinzione che «una delle grandi mistificazioni del nostro tempo consiste nell’avere separato, addirittura contrapposto, la libertà del singolo e la sua appartenenza. Al contrario: non si è liberi se non si appartiene». Eppure appartenere fa paura. Eccolo, il fattore che rende i genitori timidi, gli sposi incerti, i figli smarriti, le persone sole. La paura. Si tratti di paura dei legami o paura di educare o paura di lanciarsi nell’avventura dell’adozione o dell’affido, è sempre paralizzante. «È avvenuta – scrive don Camisasca – una vera e propria rivoluzione antropologica che non può essere affrontata se non andando a riscoprire l’esperienza originaria che si oppone alla paura. Essa non è il coraggio, ma più esattamente la speranza. E ogni speranza nasce da una fede. Non necessariamente da una fede soprannaturale, ma almeno da una fede vera, radicata negli strati più profondi dell’io». Così, come sfida alla paura e scommessa sulla realizzazione degli uomini, in queste pagine la famiglia emerge come una bellissima tentazione per il futuro, non come un istituto del passato da difendere.

Tags: camisascafraternitàlibropirandellorecensionerenato zerosan carlo borromeo
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