
Don Fabio, Enzo e l’amicizia cristiana: «Dio sa quanto ce n’è bisogno oggi»

Proponiamo di seguito l’omelia pronunciata da don Fabio Baroncini nel Santuario di San Luca, Bologna, il 26 maggio 2015, in occasione del sedicesimo anniversario del dies natalis di Enzo Piccinini. Come molti lettori di Tempi sanno, don Baroncini, scomparso lunedì 21 dicembre dopo una lunga malattia, ed Enzo Piccinini, il chirurgo emiliano morto in un tragico incidente stradale nel 1999 per il quale è stato avviato il processo di beatificazione, sono entrambi figure di rilievo nella storia del movimento di Comunione e Liberazione. E lo sono anche per la storia di questo giornale. La trascrizione dell’omelia è stata pubblicata per la prima volta nella newsletter della Fondazione Enzo Piccinini.
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Ci troviamo insieme come ogni anno per ricordare il nostro amico Enzo insieme alla moglie, ai figli e a tutta la comunità che lo ha conosciuto. La coincidenza tra la sua morte e la festa di san Filippo Neri impedisce che questo nostro ritrovarci sia un devoto ricordo, in cui siamo costretti a proclamare una sorta di mestizia o un encomio, un elogio della tristezza.
La coincidenza tra la festa di san Filippo Neri e la morte del nostro amico Enzo impedisce a questo nostro incontro di essere avvolto di tristezza perché san Filippo Neri è uno dei pochi santi nella storia della Chiesa che è stato contrassegnato totalmente da quella gioia di cui può dare testimonianza chi ha conosciuto il nostro amico Enzo. La vitalità che esprimeva, il desiderio di soddisfazione compiuta che lui ricercava nell’essere cristiano ci è stata lasciata in eredità ed è bello ritrovarci questa sera non per un ricordo pietoso ma per rivivere con lui e grazie a lui il significato del nostro essere cristiani.
E c’è una coincidenza tra la circostanza della morte di Enzo e il brano del Vangelo che ascoltiamo in occasione della festa di san Filippo Neri. Può a buon titolo essere considerato come “il brano di Enzo”, quando Pietro si rivolge a Gesù e dice: «Noi che abbiamo lasciato tutto, cosa ci guadagniamo?», e Gesù gli dice: «In verità vi dico, chi ha lasciato case, padre, madre, campi, buoi per me e per il Vangelo riceverà cento volte tanto ora, nel presente, assieme alle persecuzioni nel futuro e la vita eterna».
Questo insegnamento ha connotato la vita del nostro amico Enzo.
Mi ricordo ancora – l’ho stampata viva nella memoria – quella mattina in cui Savorana mi telefonò: «Guarda, devo darti una brutta notizia: stanotte è morto Enzo. Don Giussani chiede se possiamo ritrovarci tutti insieme per aiutarci a vivere questo momento». Allora mi sono precipitato a Gudo, dove stava don Giussani di casa, e mi ricordo che la mia maggior preoccupazione era quella di cercare di far sì che questo colpo così duro per la nostra compagnia non provocasse dei disastri nella vita del movimento. Cercavamo di “sistemare le cose”, come si suol dire, come si è sempre tentati di fare, anche chi incontra l’esperienza cristiana – anche noi che abbiamo avuto la grazia di conoscere Enzo, che sempre ci aiutava in questo tipo di défaillance, in questa caduta, per cui si cerca di vivere la vita sistemando le cose. Ma vedevo don Giussani con un atteggiamento che non riuscivo a capire, quasi di ira nei miei confronti: pensavo fosse riferito al dolore per la morte di Enzo. Invece a un certo punto è sbottato, dicendo: «No, non è questo! Noi quest’oggi dobbiamo capire una sola cosa: perché Dio ha permesso questo?». E scrisse allora una lettera che indirizzò a tutto il movimento (perché la figura di Enzo era rilevante per tutto il movimento).
Io che cosa ho imparato da questa morte? Ho imparato innanzitutto una radicalità nella decisione che ci vuole nell’esperienza cristiana, e che era la caratteristica del temperamento di Enzo. Cercare di sistemare le cose, trattenendo per sé il proprio progetto sulla vita, è un disastro, intristisce l’esistenza, ci costringe sempre a calcolare e misurare quel che facciamo, anziché andare dentro la vita di schianto per perseguire ciò che è vero, bello e giusto, e che noi abbiamo visto. In che cosa consiste il centuplo quaggiù di cui la nostra coscienza, la nostra ragione hanno bisogno perché l’atto di fede sia ragionevole? Consiste in una umanità più umana, che otteniamo per grazia se seguiamo nostro Signore Gesù Cristo. E che la nostra umanità sia più umana lo si vede dal realizzarsi di una comunione tra tutti coloro che credono in Cristo. Possiamo usare un’altra parola invece di comunione, che è teologicamente difficile: dono. Noi riceviamo da Cristo il dono di un’amicizia. Siamo stati amici di Enzo, e Enzo ci ha lasciato come una sorta di imperativo: tra di noi, se si vuole vedere il centuplo che Gesù Cristo porta, occorre che cresca una amicizia. Non è una questione strettamente legata alle capacità conoscitive, ma all’energia con cui affettivamente perseguiamo ciò che è vero, bello, giusto, ciò che abbiamo storicamente incontrato come convincente, e che diventa nostro, diventa un’esperienza, se giochiamo lì tutta la nostra libertà.
È a partire dalla morte di Enzo che per me ha cominciato a diventare significativo il passaggio di un celebre poeta francese di ormai due secoli fa, che diceva: «Sono sceso in mezzo agli uomini e li ho trovati tutti ciechi; e mi sono chiesto: ma questi vivono come se non dovessero morire mai?». La morte di Enzo ha segnato la mia personale esistenza costringendomi ad avere sempre davanti agli occhi la mia personale morte, e la morte delle persone che mi sono vicine, non come fonte di tristezza ma come sguardo nuovo sulla realtà. Chi pretende di giudicare la realtà partendo solo dall’immediatezza sbaglia. Ricordate quella volta in cui Enzo ci parlava di un intervento che doveva fare, di come si recò in cappella per chiedere l’aiuto della Madonna, perché si trattava di un intervento difficile, ma don Giussani lo corresse e gli disse: può essere superfluo che tu vada in cappella, l’importante è che tu, prima di mettere il bisturi nella pancia di quella ragazza malata (aveva un tumore), dica «Cristo, io ti offro tutto».
Ecco che cosa ho imparato dall’amico Enzo: curare grandemente l’amicizia tra di noi – e Dio sa quanto ci sia bisogno ancora di questo oggi. Ho imparato a guardare l’esistenza dalla sua fine, e non dalla reattività istintiva di ogni istante, di ogni momento.
Vi auguro che il fatto di ritrovarci insieme questa sera renda più certa questa visione sulle cose, così come l’esigenza di rischiare fino in fondo di fronte a quello che di vero, di bello, di giusto abbiamo conosciuto, perché diventi nostro. Nostro non soltanto perché l’abbiamo capito, ma nostro perché ci fa impegnare con la realtà.
Vi auguro di non essere mai da soli, che cresca l’amicizia tra di voi, che cresca la capacità personale di ciascuno di voi di vedere l’esistenza come la vedeva Enzo. Di amare l’esistenza come l’amava lui.
Così è il mistero di Dio: perché alcuni di noi più di altri sono chiamati a dare una testimonianza così grande? Enzo con la sua morte infatti ci ha lasciato secondo me proprio la sua testimonianza più grande: è stato un passaggio chiave per l’esperienza del movimento. Per il trauma che ha rappresentato, per l’incidenza emotiva che ha generato. Se mi permettete, possiamo dire che don Giussani divenne, a partire da quella circostanza, più escatologico, cioè più capace di guardare l’esistenza dalla fine della vita e non dall’immediatezza di reattività sulle cose.
Chiediamo al Signore e chiediamo a Enzo che dal Cielo, dove ora è, continui a praticare nei nostri confronti quell’amicizia che ha sempre avuto, e perciò si rivolga a Dio per ottenere protezione, grazia e salvezza per tutti noi.
Trascrizione non rivista dall’autore
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