È morto don Fabio Baroncini. Il suo Te Deum
Dopo una lunga malattia è morto questa mattina nella sua casa di Lecco don Fabio Baroncini, 78 anni (il funerale si terrà mercoledì ore 14.30 a Lecco, nella Basilica di San Nicolò con collegamento streaming). Nato a Morbegno nel 1942, è stato per molti anni parroco a Niguarda (Milano) e, sin dalla giovane età, un seguace di don Luigi Giussani, suo amico e maestro. Appassionato di canti, letteratura e montagna, è stato un punto di riferimento per generazioni di aderenti al movimento di Comunione e liberazione che trovavano in lui un amico chiaro e affettuoso. L’anno scorso gli chiedemmo un contributo per il numero di dicembre di Tempi, quello dedicato al Te Deum. Ci inviò lo scritto che segue.
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Ringrazio sempre il buon Dio di avere incontrato una forma intelligente di esperienza di fede. Il motivo per cui io sono di Comunione e Liberazione è uno solo: perché nel movimento trovo la promessa realizzata dell’intelligenza della fede.
Io sono nato in una famiglia poco cattolica; sono stato educato a un rigido moralismo, nel quale l’aspetto fondamentale dell’essere cristiani era l’obbedienza ai comandamenti. Quando negli anni delle superiori avvenne l’incontro con don Giussani – ricordo ancora la sede di via Cavour a Lecco –, quando m’imbattei in quell’uomo che proponeva, a differenza degli altri preti che conoscevo, un cristianesimo come movimento, lì in una volta sola capii che la mia educazione all’Azione cattolica, di cui facevo parte, aveva dei limiti.
Quella volta, all’inizio della riunione di noi studenti con lui, mi ero detto tra me e me: «Siamo alle solite, questo è uno di quei preti fedeli ai comandamenti come mia madre mi ha insegnato». Invece restai colpito dalle sue parole. Feci la scoperta di una nuova concezione del cristianesimo nell’incontro con lui, quando lo ascoltai affermare che il richiamo cristiano doveva essere integrale e la sua realizzazione comunitaria. “Integrale” perché deve comprendere tutte le dimensioni dell’esistenza (cultura, carità, missione) e quindi aperto verso la realtà totale; “comunitaria” perché a lungo andare l’individuo da solo non resiste nel servire gli ideali. Capii che essere cristiani a scuola in modo diverso da questo metodo, ultimamente non aveva ragione di essere.
Il motivo per cui sono diventato di Cl è racchiuso in questa affermazione di don Giussani. A partire dall’incontro con lui, tutta la mia vita fu contrassegnata dal fenomeno del cristianesimo. Gioventù studentesca si diffuse capillarmente in tutte le scuole lecchesi; l’invito era per tutti gli studenti, e tanti partecipavano, le iniziative di Gs infatti erano proposte nelle classi, sul banco di ogni singolo studente.
Mia madre era solita usare con me l’espressione «vedi che te se’ scemo?». Don Giussani, lungi da sé dal trattarmi come un idiota, dopo un mio intervento a quell’assemblea, parlando di me ai suoi disse: «Mi raccomando, quello lì è un ragazzo intelligente!». E io mi sono detto: «Ecco uno che mi capisce bene. Mi conosce, conosce la mia umanità fino in fondo. Con uno così voglio spendere la vita». Sono diventato di Cl per questo incontro con don Giussani. Avevo 14 anni.
Ringrazio il buon Dio per l’educazione che mi hanno dato i miei genitori, un padre che mi ha insegnato la serietà dell’esistenza e il valore del lavoro e una madre dalla quale ho preso la fedeltà alla parola data: se uno si impegna in una cosa, deve portarla fino in fondo.
Ricordo un episodio. Ero andato a Milano a vedere la Juventus giocare a San Siro: vinse la Juve e tale fu la mia gioia che dimenticai di prendere il treno all’orario dovuto. Arrivato a casa, trovai sulla porta mio padre: «Ecco i giovani cattolici! Basta che vinca la loro squadra e si dimenticano che il primo dovere fondamentale dell’educazione cristiana è “onora tuo padre e tua madre”. Comunque ricordati bene: se mi fai ancora uno scherzo di questo genere, tu in questa casa non ci metti più piede. È casa mia, l’ho fatta io, e ci faccio entrare chi voglio io». Da allora non sono più rientrato in ritardo a casa.
L’incontro con don Giussani mi ha fatto scoprire la verità umana dell’essere cristiani, mi ha fatto scoprire che si può essere pienamente realizzati seguendo Cristo. Un altro episodio che vorrei fosse conosciuto è quello che ricorda il cardinale Angelo Scola nel suo libro Ho scommesso sulla libertà, quando racconta del suo incontro con me nel 1959. L’Azione cattolica era rimasta senza “capo raggio” al liceo classico di Lecco, e gli avevo detto che se voleva assumersi quella responsabilità, c’era posto per lui; lo invitai pertanto al Passo di Falzarego, dove l’Azione cattolica faceva 15 giorni di ritiro. Fu lì che Scola e io incontrammo Pigi Bernareggi (uno tra i primi seguaci di don Giussani: diventerà sacerdote e partirà missionario per il Brasile, ndr), fu lì che Scola incontrò il movimento, fece l’incontro che gli cambiò l’esistenza e desunse che la sua vita era dualista: fede e vita quotidiana erano divise. Quel giorno, parlando agli studenti, Pigi faceva emergere la verità dell’affermazione secondo cui essere cristiano significa mettere al centro Cristo e che Cristo c’entra con tutto. Cristo si colloca al centro di tutti gli interessi. Cristo messo al centro dell’esperienza umana rende più umano il vivere. Il cristiano è questo.
La malattia e la speranza
Per vivere così, per avere questa consapevolezza, occorre arrivare a 80 anni. Oggi devo affrontare la circostanza della mia malattia. Grazie al Parkinson ho incontrato Dario Benatti, il mio musicoterapeuta, con il quale è nata una amicizia che ci ha portato a trovare assonanze comuni nella musica di Bach. Dall’ascolto di un preludio di Bach suonato da Dario, ho avuto un’intuizione: tutte le persone che si apprestano a salire sui monti dovrebbero prima ascoltarlo. Questa intuizione si è fatta sempre più chiara e concreta: insieme a Dario, ascoltando musica, abbiamo potuto sperimentare come montagna e musica aiutino il cammino umano ad aprirsi ad Altro da sé. In un lavoro di mesi abbiamo progettato e realizzato nel maggio scorso una serata-concerto per la città di Lecco intitolata Salita ai due Giganti. Cosa accade quando la passione per la montagna incontra Bach. Il senso dell’andar per monti – questo il fil rouge della serata – è capire cos’è la vita, scoprirne la bellezza facendo i conti con la realtà e con la fatica di affrontarla, così come si affronta la salita verso la cima in una compagnia fraterna che sa aiutare nelle difficoltà. Lo si scopre arrampicando, ma anche con la musica di Bach che sa trasformare in suoni gli aspetti sostanziali del vivere.
Sarò sempre grato a don Giussani che mi ha insegnato a vivere la mia passione per la montagna riconoscendo che il dono che si riceve vivendola pienamente e umilmente è la consapevolezza di quanto la nostra sia una semplice presenza davanti a qualcosa di più grande. Ho sempre cercato di trasmettere ai miei amici quanto ho imparato da Giussani portandoli in montagna per fare apprezzare il gusto del creato. Andar per monti permette di sperimentare e di accrescere la capacità di affrontare in modo adeguato le difficoltà della vita, paura compresa, e parallelamente la disposizione a coglierne la bellezza.
Oggi per me vivere positivamente la condizione della mia malattia significa viverla con speranza, come la intende Dante che fa dire a san Giacomo nel XXV Canto del Paradiso: «Spene è uno attender certo de la gloria futura, il qual produce grazia divina e precedente merto».
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