Diplomazia e realtà

Di Rodolfo Casadei
20 Dicembre 2024
Il contributo di Rodolfo Casadei per il Lisander, in reazione ad un saggio del professore Paolo Soave (Università di Bologna) sulla crisi dell'Homo diplomaticus
La Russia ha gli arsenali pieni di armi e munizioni

Questo contributo è stato scritto da Rodolfo Casadei per il Lisander, il substack di Tempi e dell’istituto Bruno Leoni, in reazione ad un saggio del professore Paolo Soave (Università di Bologna). Per iscriversi a Lisander cliccate a qui.

Un diplomatico in carne e ossa che fosse espressione dell’“Homo diplomaticus”, figura ideale imbevuta di valori etici che hanno al loro vertice la kantiana pace perpetua fra i popoli da perseguire attraverso il dialogo e i necessari compromessi, non l’ho mai incontrato.

Come molti giornalisti che si occupano degli esteri e che hanno viaggiato per missioni internazionali, ho solo conosciuto consoli di paesi stranieri (per esempio quelli del Sudafrica dei tempi dell’apartheid a Milano, ma non erano certo gli unici) che cercavano di comprare la compiacenza dei reporter italiani con denaro o con altri vantaggi (e non tutti declinavano l’offerta).

A Damasco ho incrociato personale di un’ambasciata che visitava ufficiali dei servizi di sicurezza locali per prendere accordi in vista di spedizioni militari che di lì a poco avrebbero cambiato il volto della guerra civile in corso: nel settembre del 2015, con l’inizio dell’intervento militare russo in Siria, capii il senso della scena a cui avevo assistito due mesi prima nella capitale, quando il colonnello dell’esercito siriano disposto a scambiare chiacchiere informali salutò amabilmente due inviati dell’ambasciata russa che mi avevano preceduto. Ho partecipato a una conferenza pubblica nel corso della quale un famoso religioso cristiano si lamentava perché poche delle ambasciate dei paesi dell’Unione europea in Italia dimostravano interesse per le sue richieste di fare avere armi al Free Syrian Army in lotta col regime di Bashar al Assad, avendo lui bussato alle loro porte.

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I diplomatici sono degli esecutori

Mai, nemmeno una volta, ho avuto la percezione che la diplomazia potesse essere qualcosa di diverso da un’articolazione dello Stato centrale e da un esecutore delle politiche decise dal governo. Esecutori intelligenti, i diplomatici, che sulle decisioni politiche influiscono con le informative che trasmettono – in concorrenza coi servizi di sicurezza esterna, le società di consulenza create da ex politici e i think tank – ai competenti uffici dei rispettivi ministeri degli Esteri. Ma pur sempre esecutori: ambasciatori e consoli dipendono dal ministero degli Esteri, in Italia la nomina dei primi passa attraverso una deliberazione del Consiglio dei ministri, quella dei secondi è decisa dal ministro degli Esteri (c’è un ruolo del capo dello Stato in queste nomine ma è in gran parte formale).

Quando i diplomatici non soddisfano le esigenze del capo di governo, vengono rimossi, retrocessi o costretti alle dimissioni: la vicenda di Sergio Romano, che abbandonò la carriera diplomatica al culmine di un braccio di ferro col presidente del Consiglio Ciriaco De Mita che aveva chiesto la sua rimozione da ambasciatore italiano in Unione Sovietica, resta esemplare al riguardo. Una maggiore autonomia intellettuale ce l’hanno sicuramente i consiglieri diplomatici che svolgono le loro funzioni presso la presidenza della Repubblica, presso la presidenza del Consiglio e i suoi dipartimenti, presso i ministeri.

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La pace e l’egemonia

Le tessere del grande puzzle della «guerra mondiale a pezzi» (fortunata definizione coniata da papa Francesco) si stanno componendo fra loro in un unico disegno perché è entrato in crisi l’assetto egemonico a guida statunitense dei rapporti internazionali che si è imposto dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia e dell’Unione Sovietica fra l’aprile e il dicembre 1991.

La pace come effetto di un ordine giuridico internazionale fortemente valoriale e assolutamente imparziale non è mai esistita perché non sono mai esistiti un governo mondiale e un potere giudiziario mondiale che si legittimassero reciprocamente. Storicamente sono fino a oggi esistiti solo due modelli di assetto dei rapporti internazionali che hanno garantito una relativa pace fra le nazioni: l’equilibrio di potenza e l’assetto egemonico.

L’equilibrio di potenza presuppone un mondo multipolare, dove un certo numero di potenze si condizionano fra loro perché nessuna diventi dominante sulle altre; l’assetto egemonico presuppone un mondo unipolare, dove una nazione o un impero è molto più potente degli altri stati, e condiziona le loro politiche. Sia l’equilibrio di potenza che il predominio di una potenza egemone possono garantire la pace nel mondo – naturalmente una pace relativa.

Guerra in Ucraina

Pax Romana e Guerra Fredda

L’esempio più classico – benché imperfetto – di pace egemonica è la Pax Romana o pax Augustea che sarebbe durata quasi due secoli, dall’ascesa al potere di Cesare Ottaviano Augusto alla morte di Marco Aurelio. Un esempio di pace d’equilibrio spesso citato sono i 33 anni che vanno dal Congresso di Vienna del 1815 ai moti del 1848. In entrambi i casi la pace non era universale, ma le guerre erano decentrate ai margini dell’impero o del concerto di potenze: i romani continuarono a combattere contro i germani e contro i parti lungo il limes imperiale, le monarchie europee che si erano accordate a Vienna restaurarono il re di Spagna inviando le truppe della Santa Alleanza e contribuirono all’indipendenza della Grecia dall’Impero Ottomano negli anni precedenti il fatale ‘48.

Un esempio a noi più vicino di pace d’equilibrio è, paradossalmente, il periodo della Guerra fredda. Dalla fine della Seconda guerra mondiale fino al 1989-1991 gli equilibri mondiali si reggono sul sistema bipolare imperniato su Stati Uniti e Unione Sovietica, avversari ma anche partner che collaboravano alla relativa stabilità delle proprie sfere di influenza: i sovietici non intervennero dalla parte dei comunisti nella guerra civile greca del 1946-1949, la Nato non intervenne a difesa della sollevazione anticomunista ungherese del 1956 o della Primavera di Praga nel 1968. Come al tempo di Augusto e di Metternich, i protagonisti del sistema combatterono le loro guerre (quasi sempre perse) nelle periferie geografiche dello stesso: Corea, Vietnam, Afghanistan.

La fine dell’egemonia americana

Le guerre scoppiano quando l’egemone viene sfidato da un aspirante egemone, oppure quando l’egemone va in crisi per sue proprie debolezze, oppure quando uno degli attori del sistema di equilibrio di potenza decide di rompere l’equilibrio per mirare all’egemonia.

Oggi ci troviamo in una di queste crisi: la potenza egemone, gli Stati Uniti, sta perdendo la sua capacità di controllo sull’ordine internazionale, emergono degli sfidanti, il sistema si muove in direzione dell’equilibrio di potenza, la ricerca del nuovo equilibrio passa attraverso sanguinosi squilibri. La data di inizio della crisi dell’egemonia americana può essere fatta risalire alla guerra contro Saddam Hussein del 2003, quando Washington non riesce ad ottenere il via libera del Consiglio di Sicurezza dell’Onu com’era invece accaduto nel 1990: quando la potenza egemone non riesce ad avere la copertura delle istituzioni internazionali significa che non è più egemone, perché se lo fosse ancora le organizzazioni intergovernative sarebbero modellate secondo il suo interesse. La data simbolica della fine dell’egemonia Usa può essere considerata il 30 agosto 2021, quando le truppe americane completano nel disordine e nel sangue il loro ritiro da Kabul, dove erano arrivate vent’anni prima, il 13 novembre 2001, per instaurare la liberaldemocrazia.

Logica clausewitziana

Che le guerre attuali non siano più clausewitziane, cioè che siano carenti di politica e quindi non più leggibili come «prosecuzione della politica con altri mezzi», non è dimostrabile. Le guerre attuali sono guerre che mirano alla distruzione dell’avversario ovvero alla sua resa incondizionata, cosa già vista nelle ultime battute della Seconda Guerra mondiale.

Questi obiettivi, schiettamente politici, sono trasparenti nelle intenzioni dei contendenti delle guerre che si combattono in Ucraina e nella regione russa di Kursk, a Gaza e in Libano. Li condividono specularmente le leadership russe e ucraine, israeliane e iraniane, est-europee e palestinesi, anglosassoni e sciite. E non si può affatto dire che siano estranei alla logica clausewitziana, se il Clausewitz che vogliamo ricordare non è quello della citazione più inflazionata, ma l’autore di quella su cui ha attirato la nostra attenzione René Girard nel suo Portando Clausewitz all’estremo: «La guerra è un atto di forza e non c’è limite logico all’applicazione di tale forza. Ciascuna parte, quindi, costringe l’avversario a seguire il suo esempio; si innesca un’azione reciproca che deve portare, in teoria, agli estremi».

Fare il male per il piacere di farlo

L’estremizzazione della guerra alla quale oggi assistiamo con orrore era ben nota al prussiano, che la vedeva all’opera sui campi di battaglia in vista della resa e della sottomissione del nemico. E le radici illuministe del pensiero occidentale sulla guerra non possono essere ridotte a Rousseau e a Kant e ai loro ideali di pace perpetua. Il Nietzsche che si prefigge di «portar più lontano la bandiera dei lumi filosofici: la bandiera che porta tre nomi: Petrarca, Erasmo, Voltaire» (aforisma 26 di Umano, troppo umano) è lo stesso che nella Genealogia della morale scrive: «Esercitare, in tutta sicurezza, il proprio potere su un essere ridotto all’impotenza, il piacere “di fare il male per il piacere di farlo”, il godimento di tiranneggiare (…) Grazie alla pena inflitta al debitore, il creditore partecipa alla morale dei signori: finisce anche lui per assaporare la sensazione nobilitante di poter disprezzare e maltrattare un essere come qualcosa che è “sotto di lui”».

Nell’immediato secondo dopoguerra Horkheimer e Adorno ci hanno spiegato nella Dialettica dell’illuminismo che c’è perfetta identità tra logica del dominio e logica illuminista.

Amici poco raccomandabili

Se l’eredità illuminista è troppo ambigua per motivare alla diplomazia per la pace, non meno contraddittorio è l’appello all’accettazione dei valori liberal-democratici da parte di tutti gli Stati come strada maestra per la convivenza pacifica. Prima di tutto perché a mettere in discussione l’idea che qualcosa come la libertà esista davvero oggi sono gli stessi che continuano a presentare il progressismo liberal-democratico come la meta ultima dell’umanità, da realizzare se necessario con guerre che mirano al regime change nel campo avversario.

Richard Dawkins, Steven Pinker, Yuval Noah Harari insistono a spiegarci che la libertà di scelta è un’illusione, che noi tutti siamo determinati dal nostro patrimonio genetico, dagli imperativi dell’evoluzione, dalla biochimica. In Homo Deus Harari ha così scritto: «Le scienze biologiche destabilizzano le fondamenta del liberalismo, perché sostengono che l’individuo libero è soltanto una favola generata da un insieme di algoritmi biochimici».

In secondo luogo, i princìpi che reggono l’ordine interno non sono gli stessi che caratterizzano le alleanze politico-militari internazionali. Per far fronte ai suoi avversari, dal tempo della Guerra Fredda a oggi l’Occidente ha accettato di reclutare nella sua coalizione governi e guerriglieri ben lontani dagli standard liberal-democratici: la Grecia e la Turchia membri della Nato anche quando erano rette da regimi militari, l’Iran dello scià e lo Zaire di Mobutu, i contras in Nicaragua e l’Unita in Angola negli anni Settanta-Ottanta, oggi l’Arabia Saudita e gli emirati del Golfo, monarchie assolute, e il regime militare di fatto dell’Egitto, senza dimenticare la Turchia molto poco democratica di Erdogan che viene utile quando bisogna contenere la Russia in Libia, in Siria e in Ucraina.

Armi atomiche

Dovrebbe bastare la logica senza aggettivi e senza complementi di specificazione (anche se ci piace chiamarla aristotelica) a spingere tutti oggi sulla strada dell’equilibrio di potenza multipolare come assetto migliore per la pace, senza bisogno di discorsi etici che rischiano di apparire discorsi ideologici che coprono interessi di potenza.

Se la guerra, come spiegano Clausewitz e Girard, è uso della forza progressivamente sempre più estremo in proporzione alla resistenza della parte avversa, nell’epoca contemporanea l’estremo non è più rappresentato dall’assorbimento nella guerra della totalità delle risorse materiali di un paese e della totalità della sua popolazione in età di leva militare ma, quando nel conflitto sono coinvolte una o più potenze nucleari, dal ricorso all’arma atomica. Chiunque oggi ragioni e operi secondo i termini strategici dell’egemonia (da difendere o da conquistare), vede la strada davanti a sé sbarrata a motivo dell’esistenza di armi atomiche nell’arsenale del suo o dei suoi principali contendenti.

L’estremizzazione dell’uso della forza in epoca nucleare implica la prospettiva di un esito apocalittico. Non tutti accettano le conclusioni di questo approccio logico. Molti ribattono che la minaccia dell’uso delle armi atomiche è un bluff, perché chi vi facesse ricorso innescherebbe una reazione della stessa natura, e di conseguenza perirebbe insieme al suo nemico. È la dottrina strategica della mutua distruzione assicurata, che avrebbe garantito la pace durante la Guerra fredda. Questo ragionamento trascura una cosa che abbiamo già detto sopra: la Guerra fredda era in realtà una pace di equilibrio in un sistema bipolare, dove l’egemonia era esercitata da ciascuno degli attori esclusivamente all’interno del suo polo.

Chi ha la valigetta

Oggi assistiamo a una contesa per l’egemonia in esclusiva fra Stati Uniti, Cina e Russia (e i rispettivi alleati), dunque il sistema non è stabile e la tendenza all’estremo è palpabile nei conflitti in corso nel Vicino Oriente e nell’Europa orientale. Non c’è nessuna garanzia che il perdente o i perdenti della contesa, messi di fronte all’eventualità del regime change che li spazzerebbe dalla scena come è avvenuto per Adolf Hitler e per Saddam Hussein, non reagiscano in modo apocalittico.

Sigmund Freud ha individuato un istinto umano autodistruttivo che ha chiamato pulsione di morte. Chi oggi vede nei capi di governo autocratici, totalitari, guerrafondai all’estremo i nuovi Hitler coi quali non si può e non si deve scendere a patti e che vanno tolti di mezzo per il bene di tutti, dovrebbe prendere coscienza delle conseguenze logiche del proprio giudizio. Se Hitler avesse avuto a disposizione una valigetta coi codici delle armi nucleari mentre era assediato nel bunker di Berlino, avrebbe sicuramente premuto i tasti e i pulsanti funzionali ad attivare la bomba atomica. I presunti Hitler di oggi quella valigetta ce l’hanno.

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