Diciannove nuovi progetti per i cristiani perseguitati in Iraq e Siria

Di Redazione
21 Dicembre 2015
«Per secoli i nostri fratelli nella fede hanno contribuito in modo determinante allo sviluppo delle società mediorientali e ora, nel momento di maggior bisogno, sono stati abbandonati»

nazarat_iraqArticolo tratto dall’Osservatore romano – Viveri, medicine, alloggi, assistenza spirituale: è quanto Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs) donerà ai rifugiati iracheni e siriani attraverso i contributi di emergenza approvati nell’ambito di diciannove nuovi progetti a favore dei cristiani perseguitati dal cosiddetto Stato islamico (Is). In una nota, la fondazione di diritto pontificio ricorda che, con i nuovi fondi, il sostegno in Iraq dal giugno 2014 a oggi salirà a oltre 15.100.000 euro, mentre quello alla popolazione siriana, dal marzo 2011 a oggi, si attesterà intorno ai 9.600.000 euro. Padre Andrzej Halemba, responsabile di Acs per il Vicino oriente, sottolinea il doveroso sostegno fornito ai cristiani: «Per secoli i nostri fratelli nella fede hanno contribuito in modo determinante allo sviluppo delle società mediorientali e ora, nel momento di maggior bisogno, sono stati abbandonati».

Tra i nuovi progetti in Iraq figura la costruzione di un asilo nido per centoventicinque piccoli cristiani rifugiati a Baghdad. Nel 2014 Aiuto alla Chiesa che soffre aveva già donato otto scuole prefabbricate a Erbil, in Kurdistan, che oggi permettono di studiare a oltre settemila bambini. Sempre a Erbil saranno donate nuove docce e servizi igienici alle centosettantacinque famiglie del villaggio «Padre Werenfried», che prende il nome dal fondatore di Acs ed è composto da circa duecento strutture prefabbricate offerte l’anno scorso dall’organizzazione ai cristiani fuggiti dalle violenze dell’Is. Verrà inoltre fornito aiuto economico a centottantadue famiglie cristiane rifugiate nell’arcidiocesi di Kerkūk dei Caldei. Le centotrentacinque famiglie del campo profughi «Vergine Maria» di Baghdad, al quale la fondazione ha appena donato una cappella-container, riceveranno invece acqua, cibo e fornitura elettrica.

«Il contributo di Aiuto alla Chiesa che soffre — dichiara l’arcivescovo di Erbil dei Caldei, Bashar Matti Warda — è stato determinante per la nostra Chiesa. Ha permesso di prenderci cura delle famiglie di fedeli e assicurare loro dignitose condizioni di vita».

Altrettanto rilevante è il sostegno in Siria, come ha affermato lo stesso padre Jacques Mourad, sequestrato per cinque mesi dal cosiddetto Stato islamico: «Sono sicuro che il bene che ho potuto fare alla popolazione, anche grazie ad Aiuto alla Chiesa che soffre, sia stata una delle ragioni che ha impedito all’Is di uccidermi», ha detto il religioso in una recente conferenza organizzata a Roma. La fondazione continuerà a provvedere alle necessità dei fedeli di Qaryatan, dove padre Mourad ha operato per oltre quindici anni, fornendo stufe e gasolio alle tante famiglie scappate dalla città e ora residenti a Homs, Fairozah e Zaidal. A Homs, in particolare, si assicurerà cibo e beni di prima necessità a ben quattromilacinquecento famiglie di sfollati, mentre a Marmarita, nella cosiddetta Valle dei Cristiani (Wadi al-Nasara), saranno sostenuti i costi di gestione di numerose scuole per sei mesi. Infine la fondazione donerà una macchina alle religiose che gestiscono un ospedale a Damasco.

Tra povertà, violenze e difficoltà quotidiane, anche questo non sarà un Natale facile per i cristiani siriani, così come non lo sono stati gli altri trascorsi dall’inizio della guerra. Eppure, nonostante il dolore e la sofferenza, la comunità ritrova gioia e speranza nella nascita del Signore: «Noi — sottolinea Acs — vogliamo aiutarli a vivere questo giorno con gioia, in particolare i bambini che già così piccoli pagano ad alto prezzo la loro fede in Dio».

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6 commenti

  1. Electronic Intifada

    “Le cicatrici di Deir Yassin e la nostra determinazione a sopravvivere :

    Mia nonna è una sopravvissuta del massacro di Deir Yassin. Sessantasei anni dopo, le sue cicatrici continuano a testimoniarlo.
    Deir Yassin è un nome inscritto indelebilmente nella narrativa palestinese.
    Quella di venerdì 9 aprile 1948 è una data che resterà per sempre incisa con infamia nella storia.
    Il massacro di Deir Yassin, inoltre, rappresenta un punto di svolta nella storia palestinese, e resta ancora oggi un simbolo di espropriazione, continua rimozione e capacità umana di compiere crudeltà.
    Ero in Palestina la scorsa estate, quando mia nonna mi ha mostrato le pietre della sua casa di Deir Yassin, dove nacque 76 anni fa, e i miei occhi hanno catturato il segno di una cicatrice chiara, sul suo braccio.
    Mentre raccontava di quei giorni, la nostalgia nella sua voce era così forte che quasi potevo vedere le barbare scene di terrore, come ci fossero mostrate in un film (…).
    Un tempo, il villaggio ospitava circa 750 persone. Poco fuori Gerusalemme, e a poche centinaia di metri dall’insediamento israeliano di Givat Shaul, era conosciuto per la sua fama pacifica e per le cave di pietra.
    UNA CARNEFICINA
    All’alba del 9 aprile, le organizzazioni terroriste sioniste conosciute come Irgun e Banda Stern fecero irruzione nel villaggio, irrompendo nelle case e massacrando quante più persone possibile. Le vittime comprendevano giovani uomini disarmati, donne in gravidanza, bambini.
    Pile di corpi dati alle fiamme e carbonizzati furono gettati nelle fosse, le case riempite di cadaveri colpiti da proiettili, le pareti macchiate di sangue.
    Ogni primavera, I mandorli in fiore riempivano l’aria con la dolce fragranza dei loro fiori. Ma quella sera, quel venerdì, il soffocante odore di sangue e corpi bruciati permeava ancora l’aria.
    Più di 100 persone furono assassinate quel giorno. Ma la carneficina non era abbastanza agghiacciante per i suoi responsabili, che esagerarono raddoppiando il numero delle vittime parlando con i giornalisti con lo scopo di disseminare il panico e il terrore in tutto il paese.
    Per l’espulsione di massa che testimoniò, Deir Yassin segna il punto di avvio per l’attuazione delle politiche sioniste, volte a cancellare la popolazione indigena da tutta la Palestina, non solo da Gerusalemme.
    La catastrofe di quell’anno provocò l’esodo di oltre 750mila persone dalle proprie case. Oggi, i palestinesi rappresentano la più vasta popolazione di rifugiati del mondo, con oltre 5milioni e 300 mila persone lontane dalle proprie terre.
    “SCIVOLATA SUI BOSSOLI”
    Mia nonna ha indicato verso un campo da basket dove una volta, dice, sorgeva la cava di pietra. Chiudendo gli occhi, ho cercato di ricostruire i particolari di questo luogo della memoria. Ma guardando dal balcone di casa, li ho riaperti sulla realtà degli insediamenti israeliani.
    Non ci sono parole per descrivere l’agonia di sapere che, per permettere ai coloni di chiamare questo posto “casa”, sia stato necessario rimuovere i suoi proprietari originari dalle loro stesse coscienze.
    “Mio padre costruì questa casa, pietra dopo pietra”, racconta mia nonna. “La mattina del massacro, mi sono precipitata per le scale per prendere dalla culla Jamal (il suo fratellino minore). Ma sono scivolata sui bossoli, tagliandomi qui, sul braccio”, indica.
    Una volta fuori, lei e i suoi quattro fratelli si misero a correre per raggiungere la loro maestra, Hayat al-Balbisi. “Mi fasciò il braccio destro e mi afferrò per il sinistro”, racconta. “Prendendo Jamal tra le braccia corse verso il gruppo di persone in fuga per Ein Karem (un villaggio vicino). Ci spiegò di restare con il gruppo prima di scappare via per soccorrere una donna ferita. Mi voltai indietro per guardare lei e la nostra casa un’ultima volta”.
    Al-Balbisi, una maestra di villaggio, costituì la prima area di soccorso quella mattina, per aiutare gli abitanti feriti. Aiutò un gran numero di persone sopravvissute al massacro prima che i terroristi sionisti le sparassero alla testa, fuori dalla casa di mia nonna. Aveva 18 anni.
    In seguito al massacro i rifugiati scapparono verso Gerusalemme Est, portando con sé incomprensibili memorie di morte e distruzione. “Quando ci riunimmo con mia madre, tre giorni dopo, ci raccontò di come i sionisti avevano tenuto prigioniera lei e altre donne nella panetteria, mostrando orgogliosamente grandi pugnali bagnati del sangue di altri”, racconta mia nonna.-
    “TUTTO DISTRUTTO”
    La cugina di mia nonna, Naziha Radwan, aveva 6 anni quando avvenne il massacro. E’ sopravvissuta grazie al sangue di sua nonna, coprendosi con il suo corpo e nascondendosi tra i cadaveri accartocciati facendo finta di essere morta.
    Camminando lungo la strada in terra battuta, mia nonna mi ha condotto verso la casa di sua zia paterna, Basma Zahran, e qui si è scontrata con un’altra tragedia. “Lei e i suoi quattro figli sono stati fucilati e i loro corpi sotterrati lì”, ha spiegato. “Tre bambine e un neonato, con sole poche ore di vita”.
    Scuotendo la testa incredula, ha aggiunto: “Prima del massacro avevamo buone relazioni con gli ebrei di Givat Shaul. Condividevamo il cibo, festeggiavamo insieme, ci scambiavamo le condoglianze l’un l’altro, così come ci si prendeva cura dei bambini dell’altro. C’era la pace qui prima che i sionisti arrivassero e distruggessero tutto”.
    Una leggera brezza si è sprigionata nell’aria mentre raccogliamo le mandorle dall’albero piantato dal mio bisnonno. Mi sono sentita rinascere grazie al legame che ho con questa terra, che rimane indissolubile, non negoziabile.
    Disturbato dalla nostra presenza, un colono ci ha raggiunto e ci ha chiesto che cosa stessimo facendo. L’ironia è qualcosa che mia nonna non ha perso.
    “Sto raccogliendo le mandorle dal mio albero”, ha risposto,” piantato fuori casa mia”.
    Il colono se n’è andato, indietreggiando di fronte alla presenza di mia nonna.
    Momenti del genere mi ricordano che non solo la tragedia, ma anche la speranza pervadono questo suolo. La Palestina non è mai stata un vuota “terra senza popolo”, e non lo sarà mai.
    Gli aggressori ritengono che i sopravvissuti prima o poi dimenticheranno. Ma si prendono in giro da soli, più di qualunque altro.
    I nostri racconti rimangono indistruttibilmente intessuti nella struttura della nostra esistenza, trapiantati nelle nostre ossa e configurati nel nostro Dna, tramandati di generazione in generazione.
    Non dimenticheremo mai cosa è successo a Deir Yassin il 9 aprile 1948. E continueremo a raccontare le nostre storie.”

    di: Dina Helmuti per Electronic Intifada

    1. Raider

      La stessa pappardella ammannita in un precedente thread viene dall’islamo-nazista multinick ricicciata qui e sotto un nickname che mostri in modo chiaro come si tratti di un jihadista che l’Intifada dei colettli la fa qui come può fare qui: diversamente, userà le armi che si trova sottomano per accoppare chi non vuole saoperne né di suoi deliri né del jihadismo palestinese.
      Si noti coe, di fronte a attentati analoghi compiuti in Israele da musulmani palestinesi, l’acker troll nazi-islaico accusava gli attentatori di essere al servizio del Mossad: e anzi, accusava Hamas di esser nient’altro che una organizzazione creata apposta dai servizi segreti israeliani… Una mattata peggiore non potrebbe venire in mente neppure al Mossad per screditare Hamas e i suoi fan(atici)! Tanto che il multinick nazi-islamico non ha trovato di meglio che fare dire a uno delle sue identità virtuali che gli interventi degli altri suoi avatar dai nicknae contraffatti erano opera mia: e questo lo diceva clonando il mio nickname: dopodiché la Redazione di “Tempi.it”, sulla base dell’indirizzo IP, gli rimuoveva i post in cui il falsario, chiudendo il cerchio delle sue paranoie, dopo aver tentato invano di credersi un altro contraffacendo il mio nckname, accusava me di essere lui!
      La crediblità ‘multi-personale’ e l’attendibilità delle farneticazioni storico-politico di questo cialtrone islamo-nazista è pari ai suoi smaccati tentativi di mentire su di sé, oltre che sugli altri. Non è il caso di ripetere qui neppure una delle obiezioni che sono state a suo tempo opposte alle divagazioni che porta a spasso come un ossesso da una parte e dall’altra di “Tempi.it” e che hanno il solo scopo, appunto, di fare l’Intifada contro questo blog. Spero che la Redazione ne rimuova il materiale d’imballaggio dell’odio viscerale come ha fatto nel thread in cui era apparsa questa prova di follia. Intanto, siccome i nazi-islamici vogliono essere confortati nelle loro frustrazioni più care, gioverà ripeterlo:
      W ISRAELE!

    2. Raider

      Spero che, se non altro, la Redazione sblocchi il mio post, grazie.

      1. Raider

        Spero che sia sbloccato ilpost che ho inviato, ribadisco, intanto, che la pagliacciata di queste rimembranze a senso unico dove non c’entrano nulla, tanto per giustificare assassini che accoltellano nella speranza di un bagno di sangue che non arriva e soldiarietà verso chi vede frustrati i tentativi di fare scorrere più sangue di quanto non ne scorra, siccome si tratta di quello che versano questi assassini manipolati fin dalla più tenera età da gentaglia come il propagandista jihadista multinick nazi-islamico, è una farsa che non dovrebbe essere consentita, tanto più che il falsario hacker-troll islamo-nazista riciccia gli stessi post all’infinito. In questo caso, loscopo è quello di funestare il Natale come hanno imposto le autorità palestinesi, che hanno piantato un albero di Natale con le foto dei jihadisti accoltellatori appese in luogo di lampadine e simboli di pace. Quella pace che i nazisti islamici anti-Occidentali non vogliono: che è uno dei motivi per cui dire sempre
        NO ALL’ISLAM!

  2. SUSANNA ROLLI

    Io penso soprattutto ai bambini,così già provati da varie sofferenze. Molti di loro non riavranno più i loro cari.
    Spero proprio che Gesù Bambino si faccia presente in modo particolare tra questa gente…..
    Benedizioni all’ associazione che si adopera al meglio.

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