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Del Turco, imputato per forza. «Ma era tutto chiaro fin dal giorno del mio arresto»

La Cassazione annulla la condanna per associazione a delinquere, delle presunte tangenti non c’è traccia. Resta la storia grottesca di un processo decennale.

Caterina Giojelli
18/01/2017 - 3:00
Interni
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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

«Lo dovevo alla memoria di mio padre, al ricordo di tutti quei comizi in piazza dove si proclamava “Non bastano i pini e i faggi del parco nazionale degli Abruzzi per impiccare i mandanti della strage di Portella della Ginestra”: quando divenni presidente della Commissione parlamentare antimafia chiesi subito di poter visionare gli atti segretati della prima inchiesta su quei fatti. Ebbene sapete cosa contenevano questi faldoni, quali erano i famosi documenti segreti di una vicenda che coinvolgeva Truman, la Cia, l’Fbi, papa Pacelli, Scelba? Copie dell’Avanti, di Paese Sera, dell’Ora, dell’Unità. La prova dell’esistenza credibile di una congiura internazionale erano i commenti su giornali venduti a centinaia di migliaia di copie e accessibili a tutti in edicola». Ottaviano Del Turco aveva scelto di concludere così il suo intervento davanti alla platea dell’incontro “Aspettando giustizia” organizzato da Tempi a Milano il 21 settembre 2012.

Sono passati oltre quattro anni da allora, otto dall’arresto di Del Turco che il 3 dicembre scorso s’è visto annullare con rinvio dalla Corte di Cassazione la condanna per associazione a delinquere, ma della morale dell’aneddoto – che i processi si fanno con le prove e non con la carta e l’inchiostro –, ancora non vi è traccia: le foto? Taroccate secondo alcune perizie. I soldi delle tangenti? Mai trovati: non c’è prova di nulla. Lo stesso accusatore chiave di Del Turco, Vincenzo Angelini, si è dimostrato un “bancarottiere seriale”. Dopo il falso ideologico, l’abuso d’ufficio, la corruzione e 18 su 21 episodi di concussione contestati all’imputato, ferma restando la condanna per induzione indebita, è caduto quindi il reato più grave di cui venne accusato e che portò in carcere il 14 luglio del 2008 Del Turco e altre nove persone, tra cui assessori e consiglieri regionali, nell’ambito della cosiddetta Sanitopoli abruzzese.

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«Non mi stupii quando i tre ufficiali della Guardia di Finanza si presentarono a casa mia a Collelongo», racconta oggi a Tempi Del Turco, «l’arresto in quella data chiariva da solo motivi e mandanti». Raccolti alcuni libri, «fui condotto in isolamento in una cella con le sbarre e senza porta, controllato 24 ore su 24 da quattro addetti alla sorveglianza. Ventotto giorni di isolamento sono lunghi, andai anche ai supplementari perché il Gip che doveva firmare l’ordine di scarcerazione era via per il week-end. Poi arrivarono i domiciliari. Il resto è storia». Del Turco ricorda l’abbrivio preso subito da giornali e magistratura il giorno in cui il sostituto procuratore della Repubblica Nicola Trifuoggi annunciò nel corso di una conferenza stampa, forse la più partecipata della storia di Pescara, «una “montagna di prove schiaccianti” contro di me. Una montagna di prove potrebbero giustificare anche un processo per direttissima, invece ci volle una montagna di fango e di rinvii di udienze per andare in aula».

Prima di trionfare nel suo Abruzzo alle regionali 2005 alla testa di una coalizione di centrosinistra, Ottaviano Del Turco è stato infatti il numero due della Cigil di Luciano Lama, parlamentare socialista, ministro, presidente della Commissione parlamentare antimafia, ma soprattutto ultimo segretario di un Psi già travolto delle vicende di Tangentopoli, «cosa che si prestava bene a farmi vestire i panni dell’imputato: io ero un socialista, colpevole quasi per definizione». A poco serve ricordare l’operazione senza precedenti avviata dalla presidenza Del Turco per risanare i conti della Regione e pareggiare il deficit di un sistema sanitario prevalentemente nelle mani del privato convenzionato (che grazie ai meccanismi della cartolarizzazione veniva remunerato sulla base di ricoveri autocertificati).

«In seguito alle ispezioni sul gruppo di Vincenzo Maria Angelini, titolare della clinica Villa Pini di Chieti e del principale gruppo della sanità privata abruzzese, e in seguito mio grande accusatore, procedemmo al recupero di circa 68 milioni di euro, arrivando a circa 100 milioni in tutto con le attività contestate anche alle altre cliniche private, diminuendo drasticamente il numero dei ricoveri impropri». E forse sarebbe bastato questo per spiegare il clima da guerra politica delle ore precedenti all’arresto. «Nella giunta del 15 luglio dovevamo scrivere una lettera da inviare a tutte le cliniche private con la quale avremmo definito il numero dei posti letto disponibili per le loro attività e il valore delle loro prestazioni. Se non avessero accettato, il rapporto con la Regione sarebbe stato sciolto». Quella riunione non si tenne mai, cadde la giunta e il resto è storia: «Avrei potuto continuare ad esercitare i poteri ma non lo feci. Firmai le dimissioni in cella, volevo fosse scritto nero su bianco che il “colpo di Regione” aveva conseguito il risultato».

Del Turco si autosospende anche dal Partito democratico, di cui è tra i 45 membri fondatori dal 2007, e per otto anni, della solidarietà dei compagni di partito non vi sarà traccia esattamente come di quella «montagna di prove schiaccianti» dei reati di cui è accusato e per cui dovrà aspettare circa due anni prima di andare in aula a Pescara dove si costituisce parte civile contro di lui, «oltre ad ogni singola clinica, l’intera Associazione italiana ospedalità privata abruzzese (Aiop) guidata dal suo presidente Luigi Pierangeli».

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La tangente con “le mele”
L’intero impianto accusatorio – di questo invece si è scritto tutto – fa fede sulla credibilità di Angelini, già attenzionato dalla Guardia di Finanza, che afferma di aver consegnato fin dal 2006 denaro contante a Del Turco e “la sua banda” per oltre 6 milioni e 200 mila euro. Convocato mesi prima dell’arresto in Procura, dove gli viene reso noto che ci sono tracce clamorose di una sua attività distrattiva (si parla di circa 60 milioni di prelievi dalle sue società che datano dal 2004) presumibilmente effettuati per pagare la politica, Angelini nicchia: si ripresenterà solo dopo mesi con delle prove diventate celebri: “Le foto che incastrano Del Turco” (titolarono i giornali), scattate dal suo autista per provare l’avvenuta consegna di una tangente il 2 novembre del 2007, quando Angelini affermò di essere entrato con una busta piena di soldi a Collelongo e uscito con una busta piena di mele. Lo stesso Tribunale dichiarerà «in queste foto non si vede nulla, solo sagome indistinte»: «Se sosteneva che fossi un suo nemico, con tutti i provvedimenti assunti dalla mia giunta che gli aveva mandato centinaia di controlli, “perché l’ha riempito di soldi?”, gli chiedevano i giudici. L’ho fatto, rispondeva lui, “perché temevo che facesse peggio”. Siamo andati avanti così per mesi, senza testimoni diretti, a colpi di dichiarazioni di Angelini e di perizie sulle immagini».

Sulla base della credibilità e delle “prove” del patron di Villa Pini, Del Turco viene condannato il 22 luglio 2013 in primo grado a Pescara a 9 anni e 6 mesi di reclusione per i reati di associazione a delinquere, corruzione, concussione, tentata concussione e falso (l’accusa ne aveva chiesti 12 senza attenuanti). «La sentenza cercò di ricondurre a una unità di pensiero i ragionamenti di Angelini e del presidente dell’Aiop Luigi Pierangeli, sentito più di venti volte nel corso delle indagini»: nella narrazione accusatoria, come ha spiegato l’avvocato difensore Gian Domenico Caiazza ai microfoni di Radio Radicale l’11 dicembre scorso, sarà infatti il racconto di Pierangeli a costituire l’ossatura dell’imputazione di associazione a delinquere, affermando in sostanza che l’amministrazione regionale assumesse provvedimenti ai danni dell’Aiop per favorire Angelini, «sviando la pubblica amministrazione per commettere reati strumentali, e porre così il sistema della sanità privata in una condizione di soggezione e sudditanza».

Pierangeli, già proprietario della tv privata regionale Rete 8 – e che oggi ha acquistato anche il giornale Il Centro (gruppo Espresso che fa capo a De Benedetti) – finirà per acquistare anche Villa Pini, fallita e messa all’asta nel 2013 insieme ai beni che facevano parte dell’incredibile impero economico di Angelini. Nel frattempo, infatti, i processi a carico dell’ex patron delle cliniche private sono aumentati in numero e in gravità impressionante (oggi è condannato a più di 20 anni di reclusione per una distrazione di fondi pari a 105 milioni di euro). Esce di scena anche il procuratore Trifuoggi, dal gennaio 2014 vicesindaco de L’Aquila, la stessa città in cui, il 20 novembre 2015, la Corte d’Appello assolve Del Turco da tutti i reati di abuso e di falso ideologico e da 18 delle 21 dazioni di denaro di cui è accusato.

Resta la condanna a 4 anni e 2 mesi di reclusione per i reati di associazione a delinquere e per induzione indebita nonostante, lo ammetterà il procuratore generale stesso, dei soldi delle presunte mazzette (la cui entità è nel frattempo scesa da 6 milioni e rotti a 800 mila euro) non c’è un solo euro tracciabile. «Sì, sono stato assolto da tutti i reati “strumentali”, è caduto lo sviamento denunciato da Pierangeli, ed è stata attestata così la legittimità dell’operato del mio mandato, ma l’andamento del processo di Pescara non poteva che portare a un’altra condanna. Ho solo potuto prendere atto dell’andatura vendicativa del sistema giudiziario».

E il Pd scelse la Procura
In questi anni sono state eseguite indagini sui conti e i movimenti bancari di Del Turco, della moglie, del figlio, dei fratelli e di persone vicine alla famiglia, «non abbiamo riscontrato movimenti o versamenti, anche di un solo euro, che non fossero tracciabili» affermò in aula il colonello Maurizio Favia, comandante provinciale della Guardia di Finanza di Pescara e responsabile delle indagini per conto della Procura su Del Turco (nel corso di un surreale interrogatorio al termine del quale si scoprì che denunciando più volte “pagamenti in contanti” il colonnello si riferiva a bonifici bancari). Del Turco, uno che quando volle aiutare un famigliare ad acquistare un appartamento vendette due quadri dell’amico Schifano. O che, pedinato a sua insaputa dalla Guardia di Finanza, comprò due vestiti dalla fabbrica di Brioni per 800 euro pagando con assegno.

«È stato questo ad accompagnarmi negli anni e darmi forza, l’incredulità della gente comune». Che ancora lo ferma per strada per manifestare la sua solidarietà, quella che è mancata dai compagni del partito e da cui Del Turco ricevette un solo attestato: un messaggio, inviato dall’allora segretario del Pd Walter Veltroni, «ti auguro di poter provare la tua innocenza», in quelle parole c’era «quasi tutto. Del “resto” trovai conferma quando lo incontrai nei pressi di Montecitorio e cambiò marciapiede». Del Turco racconta che rimase «sconvolto» a leggere quelle poche parole che in un sol colpo mortificavano ogni diritto alla presunzione di innocenza e alle garanzie costituzionali, «tra un fragile impianto accusatorio e un vecchio militante il Pd aveva scelto la Procura».

La credibilità del pendolare
E arriviamo così al 3 dicembre scorso, alla vigilia di un referendum che avrebbe occupato penne e prime pagine, quando la Corte di Cassazione annulla con rinvio la condanna per l’accusa di associazione a delinquere per Del Turco e alcuni degli altri imputati per la Sanitopoli abruzzese, Camillo Cesarone e Lamberto Quarta. In attesa delle motivazioni della sentenza, Del Turco si prepara a un nuovo processo a Perugia che dovrà rideterminare il trattamento sanzionatorio e riscrivere la sentenza d’Appello della Corte dell’Aquila. «Scrissi un libro una volta, Onora il padre e la madre, che ebbe un discreto successo. In questi anni ho ricevuto varie proposte di scriverne uno sulla mia vicenda giudiziaria, ma mi sono sempre rifiutato e non lo farò nemmeno adesso, non ho il gusto delle memorie, soprattutto se dolorose. Il mio caso è stato abbinato a quello di Enzo Tortora, e qualcuno che si è chiesto se fossi innocente c’è stato, alcuni giornalisti si sono comportati eroicamente facendo il lavoro che non aveva fatto la Procura, cercando i fatti, le prove, le grandi assenti da tutta la mia storia giudiziaria».

Qualche giorno fa Del Turco sedeva in ultima fila su un pullman per tornare da Roma in Abruzzo, «quando mi si è avvicinata una signora per dirmi “il fatto che lei viaggi con i pendolari abruzzesi su un pullman e non in limousine, significa che probabilmente con quella storia non c’entrava nulla”. L’ho naturalmente ringraziata pensando che con una battuta aveva davvero riassunto tutta la difficoltà della politica italiana di esercitare la propria funzione: la mia credibilità era provata dal fatto che avessi preso un pullman e non una limousine». Chissà che posto avrebbe questo aneddoto in tribunale o nei faldoni segretati di una inchiesta della Commissione antimafia.

Foto Ansa

Tags: giudiciOttaviano Del TurcoPdprocesso del turco
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