
«Basta proclami sulla decarbonizzazione. Ascoltate il grido di dolore dell’industria»

Non si può fare sviluppo sostenibile senza ascoltare il «grido di dolore» dei settori energivori: acciaio, chimica, ceramica, carta, vetro, cemento e fonderie. Sembra un paradosso eppure è la realtà. A maggior ragione in un mondo in cui, come osserva Antonio Gozzi, presidente di Interconnector Energy Italia, «tutti fanno proclami ma nessuno si occupa dell’execution». Gozzi lo dice a tempi.it riferendosi anche a certo modo di fare politica industriale ed energetica in Italia («una sorta di pauperismo e di decrescita felice che non capisce come va il mondo») e al «fideismo pseudoreligioso alla Greta Thunberg, un estremismo ecologista che si è insediato persino all’interno degli uffici della Commissione europea a Bruxelles».
Mentre l’Unione Europea va infatti predicando come un mantra la decarbonizzazione, con gli obiettivi del taglio del 55 per cento delle emissioni entro il 2030 e la carbon neutrality nel 2050, pochi si sono accorti che l’Italia, a politiche correnti, non sarebbe in grado di raggiungerli e che il 70 per cento delle leve previste, al costo corrente della Co2, è economicamente insostenibile. Lo ha messo in luce proprio Interconnector Energy Italia con il documento Strategia per la decarbonizzazione dei settori cosiddetti ‘Hard to abate’, redatto insieme a Federbeton, Federacciai, Assocarta, Confindustria Ceramica, Federchimica, Assofond e Assovetro, in collaborazione con Boston Consulting Group. In particolare, per le industrie energivore, la decarbonizzazione avrebbe un costo di 8-15 miliardi nei prossimi dieci anni che significa un taglio del margine del 8-20 per cento.
Presidente, occorre cambiare strada?
Non proprio. Ormai ci troviamo tutti dentro questa urgenza climatica e tutti ragioniamo così. Il problema piuttosto è la definizione di quelle misure che sono necessarie per accompagnare i settori industriali nei processi di decarbonizzazione. Stiamo parlando della possibilità per l’Italia di continuare a essere un grande paese industriale. I committenti di questo studio, infatti, rappresentano l’industria che sta alla base dell’economia italiana e dalla quale dipendono tutti gli altri settori a valle. Sono quelli che garantiscono il primato tecnologico e commerciale sull’export, che è ciò che letteralmente tiene in piedi il paese, specie in un momento di difficoltà come l’attuale, grazie alla possibilità di produrre beni e di esportarli.
Come andrebbero perseguiti gli obiettivi della decarbonizzazione?
Posto che nessuna grande economia al mondo si permetterebbe mai di mettere all’angolo i propri settori industriali, l’errore da non compiere è quello di focalizzarsi su un’unica tecnologia. Dice bene Roberto Cingolani, ministro della Transizione ecologica, quando osserva che con l’elettrificazione totale delle auto nel 2030 rischierebbe di far chiudere la Ferrari, e ha ragione da vendere Giovanni Savorani, presidente di Confindustria Ceramica, quando fa notare che nel suo comparto ci sono processi che devono andare a gas e per i quali non è possibile elettrificare tutto. Il tema della decarbonizzazione non può non prendere in considerazione questo grido di dolore.
Seguendo quali direttrici?
Primo, non esiste un’unica tecnologia, l’elettrificazione come chiave per risolvere il problema; bisogna invece perseguire la neutralità tecnologica e cioè un portafoglio più ampio di molteplici strumenti e soluzioni che abbracciano certamente l’elettrificazione, ma anche la carbon capture e i cosiddetti green fuels (idrogeno e biometano). Secondo, e per questo stiamo lavorando con Cingolani e il governo, trovare fondi, come ha fatto la Germania con il suo Pnrr, per accompagnare i settori energivori verso la decarbonizzazione, aiutando le aziende a mettere in campo tecnologie e processi, ma tenendole in vita. Il problema, in Italia, è che quando si discute c’è ancora chi dice che “tanto quel settore lì deve morire”. Ma quale paese si può permettere di assistere, per esempio, alla morte della siderurgia? È un fideismo pseudoreligioso alla Greta Thunberg, un estremismo ecologista che si è insediato persino all’interno degli uffici della Commissione europea a Bruxelles. E non dimentichiamoci che la siderurgia italiana, oltretutto, è meglio di quella tedesca, perché all’80 per cento è già elettrificata e dunque decarbonizzata, mentre quella tedesca è prevalentemente ad altoforno e quindi ancora carbonizzata.
Non si vuole vedere la realtà?
Siamo tutti concentrati sulla tematica ambientalista, ma non vediamo che il problema del climate change non si può risolvere senza le imprese, a cui spetta il compito di declinare la migliore tecnologia. Senza le imprese, infatti, della lotta al cambiamento climatico restano in piedi soltanto una sorta di pauperismo e di decrescita felice che non capiscono come va il mondo. Basta dire facciamo l’idrogeno verde? Ma se per farlo ci vogliono un sacco di fonti rinnovabili e noi non siamo in grado di produrle dove vogliamo andare? Nessuno intanto si fa carico del fatto che non si riescono a fare i campi fotovoltaici o i parchi eolici perché una sovrintendenza può bloccare tutto! Certo, lo può capire chiunque che in Italia non si possono fare i pannelli solari nel Chianti o quelli eolici nella Valle dei Templi ad Agrigento, ma si potrà far qualcosa per snellire i processi per installare i pannelli solari nei compound senza perdere tre anni coi permessi? Dovrebbe essere scontato, ma così non è. Tutti fanno proclami ma nessuno si occupa dell’execution. E tutto questo è propaganda. Bisogna che le aziende non siano lasciate sole ad affrontare questo sforzo. Il percorso di transizione che proponiamo nello studio avrebbe un impatto positivo sul Pil di circa 10 miliardi fino al 2030, consentendo, oltretutto, il sostegno a circa 150 mila posti di lavoro qualora gli investimenti venissero gestiti completamente in Italia.
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