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Povero Piercamillo Davigo. Dal 20 giugno, l’amaro giorno in cui il tribunale di Brescia l’ha condannato a 15 mesi di reclusione per rivelazione di atti d’ufficio, le crudeli tricoteuses dell’online hanno scatenato contro di lui la un’indecorosa canea d’insulti, oltraggi e sfottò. Per carità, Davigo è finito – suo malgrado – vittima della tipica regola del contrappasso: se per anni, da magistrato, vai in giro sostenendo che in Italia «non esistono innocenti, ma solo colpevoli ancora non scoperti», non puoi certo non attenderti un’ovazione quando poi una condanna capita a te. Del resto, nessuno può dire nemmeno che Davigo sia un bulimico cacciatore di simpatie. E nulla, evidentemente, può essere perdonato al magistrato che dai tempi di Tangentopoli viene celebrato come un tetragono giustizialista, un legalitario intransigente, il mancato (ma perfetto) ministro prussiano della Giustizia per cui il popolo dei grillini e dei manettari avrebbe messo in atto una "ola" permanente.
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