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Invece di leggere gli editoriali sulla cannabis, ascoltate Tiziana, Marzia, Alberto

Dalla cannetta al crack. Nel film-inchiesta di Alberto D'Onofrio "Giovani e droga" c'è tutto quello che i soloni della legalizzazione non dicono. Raccontato dai ragazzi di San Patrignano, della comunità La Torre e dell’associazione Anglad

Caterina Giojelli
10/10/2021 - 6:10
Spettacolo
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Tiziana, una delle ragazze di San Patrignano che si è raccontata nel film-inchiesta “Giovani e droga” di Alberto D’Onofrio
Tiziana, una delle ragazze di San Patrignano che si è raccontata nel film-inchiesta “Giovani e droga” di Alberto D’Onofrio

Hanno iniziato con le canne, «le prime cannette», marijuana, hashish. Molti a 12, 13, 14 anni e come tutti, a caso. «Non avvertivo la necessità di fumare ma ero l’unica a non farlo», e poi? Poi le canne sono diventate pasticche, cocaina, md, eroina, le panchine sono diventate le feste, gli “after”, i “rave”. E l’attenzione si è spostata dalla comitiva della cannetta ai «più grandi del gruppo, che con la coca erano indipendenti, facevano soldi facili, andavano a vivere da soli»; a quel ragazzaccio di quartiere «che spacciava e assumeva coca però era bello, proprio bello. E quando si accorse di me io non ci ho capito più niente. Volevo stare con lui a tutti i costi»; all’amica che «per il mio compleanno mi ha portato a ballare in una discoteca di Pisa, mi ha messo in mano un bicchiere e in bocca due pastiglie».

Sapete cosa c’è? C’è che nella demenziale operazione simpatia a proposito del referendum sulla cannabis, tutta tesa a rimarcare che c’è droga e droga e legale non fa male, mancano loro: le vite fumate, bucate e bruciate di Tiziana, Samuel, Simone, Marzia, Alberto e degli altri ragazzi del film-inchiesta Giovani e Droga di Alberto D’Onofrio, andato in onda su Rai2 in prima serata il 7 ottobre. Tutto il girato è disponibile su Raiplay e lo scriviamo senza alcun intento di fare pubblicità progresso.

Dalla cannabis al crack

Nessuno si aspetta che una riflessione su di loro (e sul fatto che oltre il 95 per cento delle persone che in Italia sono in terapia per eroina e cocaina nei SerD ha cominciato con la cannabis) trovi spazio nel melodramma dell’accidia dei Severgnini (suo il fervorino: «Oh come litigheremo prima del referendum», «sarà un litigio prolungato, astioso, sordo alle ragioni degli avversari: c’è il rischio che faccia rimpiangere quello – non ancora concluso – sull’utilità della vaccinazione anti-Covid»), tutt’altro.

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Vi diranno, i Severgnini, i Saviano, i Manconi, che in pochi dalla cannabis approdano a droghe più pesanti; che anzi, la «depenalizzazione della cannabis, ci consentirà di combattere battaglie più importanti», come quelle contro la cocaina, l’eroina. Non è forse la dipendenza da queste brutte sostanze – chiederanno retoricamente – ad avere spedito Tiziana, Samuel e gli altri nelle comunità di San Patrignano, La Torre del gruppo Ceis di Modena e Anglad di Roma?

Madri di figli pelle e ossa

A questa domanda dovrebbe rispondere onestamente ogni genitore, fidanzata, sorella, moglie, marito, zio di un tossicodipendente: quelli dei ragazzi di Giovani e droga lo hanno fatto, e nessuno si è sognato di fare distinguo. C’è chi trovando nella stanza del figlio marijuana, hashish pensava fosse “solo quello”, e poi è arrivato a consegnare il figlio alla polizia (e per quanto sia impopolare scriverlo, quel passaggio di consegne ha salvato Mattia, risorto dopo essere passato attraverso denuncia, arresto, mesi di reclusione al Pratello e poi di recupero alla Torre: ascoltatelo raccontare il senso di colpa che ancora incrocia negli occhi del padre). C’è chi è impazzito dopo che quella figlia svalvolata si è presentata al suo lavoro («mamma ho un problema», «lo so che hai un problema», «no mamma, io uso eroina»).

C’è chi vive inchiodato alla croce di non essere intervenuto subito, all’inizio («io e suo padre ci eravamo appena separati, lei voleva stare con gli amici, giustificavo ogni suo comportamento»). C’è una mamma che stava per buttarsi giù dalla finestra dalla disperazione (l’ha salvata il compagno afferrandola per la maglietta), e ce ne è una che ha afferrato appena in tempo il corpo ridotto a pelle e ossa di suo figlio. Tutti si sono chiesti come si era arrivati a quel punto e tutti hanno dovuto chiedersi come si era iniziato.

«Mai pensato di farmi male»

Pensavano fosse solo divertimento, sballo, anestetico, «dopo che bevevi e fumavi, iniziavi a prendere la coca per stare sveglio altre ore», «perché lavoravo meglio», «perché rendeva di più», «perché la prendevano gli altri». Perché un corpo assuefatto a una emozione (e sofferente le circostanze in casa, famiglia, a scuola) ne vuole sempre di più. «Quando ti droghi hai tutto quello che vuoi perché prendi tutto quello che vuoi; non ho mai, mai, mai pensato che mi stessi facendo male io e facessi male agli altri», dice Tiziana che pure è uscita illesa da un incidente distruggendo un’auto, e ora benedice e ringrazia San Patrignano dove è responsabile di una ragazza come era lei.

Perché a San Patrignano non ci si prende in giro con prediche e medicine, niente retorica e palliativi: ci sono regole, lavoro, c’è la realtà così com’è, gente che non si droga ma che anni prima, dal medico al capo reparto, si drogava proprio e più di Tiziana. «Sono entrato a San Patrignano come tossicodipendente negli anni 80, sono scappato tre volte, ma Vincenzo Muccioli mi ha sempre aiutato a rientrare», ha raccontato Antonio Boschini, responsabile terapeutico della comunità che può ospitare fino a duemila persone come Tiziana e che da quando è nata ha salvato oltre 26 mila persone ridotte a zombie.

«Basta fumare, devi iniettartela»

Nel film-inchiesta c’è il racconto senza filtri della vita in comunità. Dietro il viso allegro delle ragazze del reparto femminile della comunità fondata da Vincenzo Muccioli, dei ragazzi della Torre, delle famiglie di Anglad, dietro i tatuaggi, i piercing, gli occhiali, c’è il racconto spietato della dipendenza. Quella da sostanze stupefacenti che diventa dipendenza affettiva da persone che con la droga spalancavano il mondo, da quel fidanzatino che pippava e alzava le mani («sopportavo le botte perché ero diventata dipendente anche da lui»), dipendenza distruttiva da quei furti continui, in casa dei genitori, della nonna, degli zii, dall’usare minacce per avere i soldi per farsi («dammeli mamma o mi ammazzo», «dammeli mamma o ti verranno a cercare quelli a cui li devo»), dipendenza dall’essere disposti a tutto, anche a prostituirsi.

La storia degli intervistati da D’Onofrio è quella di ragazzi a cui è bastato un piccolo facilissimo sì, a un piccolo momento, una piccola droga, che è diventata sempre e velocemente qualcos’altro, un miliardo di momenti e sostanze a cui era impossibile dire di no. Fino a schiantarsi contro una denuncia, il terrore davanti a una siringa mostrata dallo spacciatore di eroina («non puoi più fumartela, devi iniettartela»), un fratello che ti becca in bagno e sbatte la faccia davanti allo specchio, «ora fuma il crack guardandoti», un paletto che distrugge l’auto, un uomo che ti lascia in autostrada a 30 chilometri dal casello, un tentato suicidio, degli assistenti sociali che ti portano via il tuo bambino.

Alberto e la finestra aperta

La storia di chi, dopo lo schianto, poteva solo finire disintegrato o afferrato: da quella mamma che ha divorziato, dalla sorella che ha abbandonato, quel padre che l’ha denunciato. Ma soprattutto da qualcuno che desse senso, orizzonte alla una storia ormai prostituita al fumo e al buco. Marzia a San Patrignano non è solo rifiorita, si è innamorata di Costantino. Un anno di sguardi, perché le regole delle comunità sono ferree: nessun flirt, nessun “farsi compagnia”, se è amore lo sarà anche nel tempo e in castità. E i due lavorano oggi nella comunità per aiutare a risorgere altri zombie come loro al primo ingresso. Alberto è uscito dalla Torre piangendo e trovando un modo per ricordarsi da dove è uscito, dove è stato amato: continuare a lavare, fare i letti, avere cura del suo sé disintegrato due anni prima dalla “doppia diagnosi”, una per tossicodipendenza ed una per un disturbo di personalità con tratti borderline e narcisistici scatenata proprio dalla droga.

Aveva solo 14 anni quando iniziò con le canne, ne ha 22 oggi che è già passato per cocaina e crack, un incidente da cui è uscito salvo (un amico morto accanto, un altro ridotto in stato vegetativo), un papà malato terminale, una finestra aperta il giorno del suo 18 esimo compleanno (quando nessuno lo ha chiamato per fargli gli auguri), e da cui aveva provato a buttarsi dopo essersi fatto di tutte le sostanze trovate nella stanza. Nel filmato Alberto chiede di poter mostrare il video che ha girato con un amico nel 2018, quando in dreadlock, piercing, musica trap, si faceva di crack davanti alla telecamera. È facile chiedersi come si arriva a questo punto, più difficile chiedersi come si è cominciato. E cosa si è offerto, qualunque sia il motivo o la ragione, per cominciare.

Tags: cannabisdrogasan patrignanoVincenzo Muccioli
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