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«A Cuba situazione drammatica, ma in Italia vince la propaganda»

Intervista all'ex ambasciatore all'Havana Domenico Vecchioni: «Sono 60 anni che questo povero popolo è oppressò dal regime che castra ogni sua potenzialità»

Paolo Manzo
28/02/2022 - 6:23
Esteri
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Cuba

Domenico Vecchioni è stato ambasciatore d’Italia a Cuba tra il 2005 e il 2009. Collaboratore di diverse riviste tra cui “BBC History Italia”, ha scritto una trentina di libri tra cui le biografie di Evita Peron, Raúl Castro, Rasputin e Saddam Hussein oltre alla “Storia degli agenti segreti”. L’ultima sua opera, uscita lo scorso anno per i tipi della Diarkos, è un bel saggio dal titolo “Pablo Escobar. Vita, amori e morte del ‘Re della cocaina”. Tempi lo ha intervistato per comprendere cosa stia accadendo oggi a Cuba.

Nel suo ultimo libro scrive dei legami poco noti in Italia tra la dittatura comunista ed Escobar. In dettaglio di che si tratta?

A metà degli anni Ottanta, il fondatore del cartello di Medellín scoprì la cosiddetta “filiera cubana”, una nuova rotta della droga che gli fece guadagnare molto tra Colombia, Messico, Cuba e gli Stati Uniti. Ci fu un accordo tra Escobar, il generale Arnaldo Ochoa, amico di Raúl Castro e uno dei più grandi 007 cubani, Tony de la Guardia. Ne abbiamo conferma dalle testimonianze, anche recenti, nei libri di memorie di Jhon Jairo Velásquez Vásquez, alias Popeye, il sicario più sanguinoso di Escobar e di Juan Reinaldo Sánchez, 007 che era la guardia personale di Fidel Castro. Si tratta di testimonianze coincidenti.

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Cosa c’era alla base dell’accordo?

Escobar esportava sempre più cocaina e quindi guadagnava di più, i cubani prendevano una polposa tangente sui chilogrammi di cocaina che passavano da Cuba e Castro faceva cassa in dollari che servivano per finanziare le guerriglie in altri paesi. Inoltre Fidel provava anche un certo piacere politico nel sapere che questa attività danneggiava i giovani statunitensi. Il problema fu che, dopo un anno e mezzo di questa collaborazione tra il castrismo ed il cartello di Medellín, un carico proveniente da Cuba fu sequestrato dalla DEA e da lì a Washington scoprirono la “filiera cubana”.

Come reagì Castro?

Genialmente capì che poteva prendere due piccioni con una fava. Da un lato negò che l’accordo fosse mai avvenuto per preservare la “purezza del regime”, dall’altro ne approfittò per eliminare Ochoa, che era favorevole alla perestrojka di Gorbachov e sognava anche a Cuba qualche apertura. Il generale era popolare e metteva in ombra Fidel, che quindi, condannò duramente i “traditori” Ochoa e de la Guardia “che abbiamo subito individuato e condannato” disse in pubblico. I due furono fucilati con un cinismo senza pari. Il processo era stato deciso da Fidel, il Pubblico Ministero era Raul, che era il più grande amico di famiglia di Ochoa ma doveva comunque accusarlo dei peggiori crimini, perché così aveva deciso il fratello.

Tutti si meravigliarono dell’atteggiamento remissivo tenuto da Ochoa durante il processo, come lo spiega?

All’epoca si disse, e io ci credo, che Raúl gli aveva fatto questo ragionamento: «Non abbiamo dimenticato i tuoi servizi per il regime ma non possiamo non condannarti per quello che è successo. È probabile che la tua condanna sarà a morte, ma tu non ti preoccupare perché non sarà eseguita, sarà commutata in ergastolo e dopo pochi anni troveremo il modo di farti uscire. Però a una condizione: che tu confessi tutto».

Lui confessò tutto ma poi lo fucilarono…

Che Ochoa trafficasse non solo in cocaina con Escobar ma anche in diamanti e avorio era noto al regime perché lo sforzo di Cuba di mandare 30mila uomini in Africa era enorme e a un certo punto l’Avana non ce la faceva più, i soldi non arrivavano e il contingente doveva pur finanziarsi. Quello era uno dei tanti modi che aveva trovato Ochoa per fare un po’ di soldi, ma non lo faceva per se stesso bensì per sostenere le spese del contingente in Angola e all’Avana lo sapevano. Poi però, quando fu incastrato dalla DEA, Ochoa doveva essere eliminato per coprire i vertici del regime, che sapevano tutto.

Oggi la situazione a Cuba è drammatica. Qual’è la sua analisi?

Sono 60 anni che questo povero popolo è oppressò dal regime che castra ogni sua potenzialità. Tutti pensano che Fidel avesse ereditato un paese alla fame e che lui ha risolto il problema, che tutti i cubani mangiano, che non si vedono poveri per strada, ma non è vero. Cuba negli anni Cinquanta era uno dei paesi più sviluppati dell’America latina. Con grandi differenze sociali, questo è vero, ma la situazione non era molto diversa da quella dell’Italia. Nella narrativa che va per la maggiore in Italia, dunque, si è già partiti da una base sbagliata. Il regime adesso si vanta di avere aumentato i salari del settore pubblico che, quindi, non sono più di 30 dollari ma di 60. Il problema che l’inflazione si è mangiato tutto l’aumento e il cubano oggi sta peggio di prima. I prezzi sono saliti alle stelle, c’è la crisi economica, quella energetica e quella turistica. Anche adesso che l’Avana ha riaperto dopo la pandemia i turisti non si vedono.

E il regime, come sempre, cerca responsabilità esterne per giustificare il suo fallimento.

Sì, è colpa del bloqueo, come loro chiamano l’embargo USA, delle catastrofi naturali, è colpa della UE, dei traditori, dei gusanos, i “vermi” come il regime definisce gli oppositori. Mai che qualcuno dica che la colpa è del sistema che non funziona e che ha distrutto l’industria e l’agricoltura. Cuba prima esportava zucchero in tutto il mondo, oggi lo deve importare perché la produzione non basta al fabbisogno nazionale. Criticano tanto l’embargo ma l’80 per cento del fabbisogno alimentare cubano viene coperto dagli Stati Uniti, le cosce di pollo che mangiano i cubani sono americane perché l’embargo ha due eccezioni, prodotti alimentari e umanitari.

Quando Raúl arrivò al potere fece una politica di correzione degli errori del regime del fratello. Cosa non ha funzionato?

C’erano cose inaccettabili, come il fatto che un cubano non potesse possedere un cellulare, un computer, che non potesse andare negli alberghi di Varadero perché ai tempi di Fidel vigeva un apartheid interno. Queste cose Raul le ha tolte però anche lui, a un certo punto, si è trovato di fronte al dilemma che non hanno ancora risolto.

Quale?

Se non riformo il sistema implode, se riformo il sistema esplode e, questo, è un pericolo per il regime. Stanno facendo dei tentativi come ad esempio la nuova Costituzione, dove hanno introdotto la proprietà privata, ma è una proprietà privata condizionata per ogni cosa. Hanno sempre il timore di modificare il sistema marxista leninista perché a chi gestisce tutto sull’isola, dai gerarchi di partito agli alti ranghi militari, fa comodo mantenere lo status quo. Per loro significa benessere, significa vivere nelle ville che una volta erano dei grandi proprietari terrieri, quindi c’è una volontà di mantenere le cose come stanno. Ma non è più possibile.

Come hanno dimostrato le manifestazioni dell’11 luglio scorso, represse con ferocia.

Sì, hanno scelto la risposta più dura che si potesse immaginare, perché si sono spaventati: per la prima volta dei manifestanti non chiedevano solo pane ma anche libertà. E non chiedevano la libertà dei loro padri, ovvero fateci uscire da Cuba perché ce ne andiamo negli Stati Uniti, no, loro vogliono restare per vivere in un altra Cuba. E sono i giovani. Solo che il presidente Miguel Díaz-Canel ha messo in campo tutti i sistemi repressivi di cui dispone per cui, l’altra manifestazione che doveva avere luogo a novembre, è stata un flop forzato, ma solo perché hanno impedito alle persone di uscire di casa. La cosa triste è che tutto questo non suscita nessuna emozione in Europa, quindi ho l’impressione che Díaz Canel stia andando verso un regime sempre più repressivo. La situazione sta peggiorando non solo dal punto di vista economico ma anche dal punto di vista politico e qualunque opinione diversa a Cuba non si può esprimersi.

Il regime ha sempre ragione, insomma. Potrà durare a lungo?

Molto dipende anche da quello che fanno gli americani. Stranamente per quanto riguarda Cuba, il presidente Joe Biden si può considerare l’erede di Trump, perché ha mantenuto tutto ciò che il suo predecessore aveva istituito. La vera domanda è: che cosa vogliono gli americani? Vogliono continuare così? L’unica novità che fa sperare è che tramite Internet, via social, i giovani a Cuba oramai hanno gli occhi fissati verso il mondo e sanno cosa succede nel loro paese. Hanno una maggiore consapevolezza e sanno che non c’è scritto da nessuna parte che debbano vivere sotto la cappa del regime dei Castro e dei Díaz-Canel.

Perché in Italia è difficile fare passare il messaggio che Cuba sia una dittatura?

Perché la propaganda cubana ha evidentemente molta presa da noi.

Il fatto che in Italia ci sia stato il maggior partito comunista occidentale può essere una spiegazione?

In parte ma dovrebbero essere oramai solo dei residui. Leggevo della recente visita a Cuba di Paolo Ferrero, vicepresidente di Sinistra Europea, che è tornato ripetendo tutti i luoghi comuni comunisti, ovvero che a Cuba c’è la democrazia diretta, che noi non capiamo che proprio quella è la forma più elevata di democrazia, che è un popolo che soffre a causa dell’embargo USA ma che riesce a far fronte eroicamente alle difficoltà. Effettivamente ogni volta che c’è un’occasione di incontro e che parlo di Cuba come un paese dittatoriale in Italia ho molte in difficoltà e ci sono sempre mille giustificazioni.

Anche sui diritti dell’uomo, vero?

Sì perché ti dicono: «Ma a Cuba i diritti fondamentali a essere nutrito ed alla salute sono rispettati mentre gli altri come la libertà di parola, la libertà di movimento, in questo momento, con l’oppressione americana…». Insomma fanno ragionamenti assurdi. Sono arrivati addirittura a dire che le manifestazioni del luglio scorso sono state organizzate dalla CIA. La cosa triste è che gente in Italia ci crede. Ci vorrebbe maggiore informazione e manca la visione più oggettiva che, ad esempio, c’è in Spagna.

Tags: comunismocubadrogaStati Uniti
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