Cosa vuole davvero ottenere Trump con la “riviera Gaza”

Di Rodolfo Casadei
11 Febbraio 2025
Giordania e Egitto non accoglieranno mai i palestinesi deportati. La “sparata” del presidente Usa è uno stratagemma per coinvolgere i paesi arabi nella gestione della Striscia
Palestinesi nel sud della Striscia di gaza, 9 febbraio 2025 (foto Ansa)
Palestinesi nel sud della Striscia di gaza, 9 febbraio 2025 (foto Ansa)

Nelle ultime ore la tregua tra Israele e Hamas ha cominciato a vacillare. Hamas ha annunciato il rinvio a tempo indeterminato del prossimo scambio fra ostaggi e prigionieri. Il ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha subito accusato i terroristi islamici di essere venuti meno agli accordi.

La verità è che, volendo ragionare in termini strettamente politici (i termini morali della questione ogni persona in buona coscienza è in grado di riconoscerli), l’evacuazione di massa dei palestinesi da Gaza e l’occupazione della Striscia da parte di una forza statunitense-israeliana sarebbe l’operazione più dannosa che si possa concepire per gli interessi americani in Medio Oriente e anche per quelli israeliani rettamente intesi.

Stante l’indisponibilità della maggioranza dei residenti ad essere trasferita permanentemente in altri paesi arabi e della totalità di questi ultimi ad accogliere palestinesi deportati contro la loro volontà, l’unico modo di realizzare il piano evocato da Donald Trump sarebbe quello di sospingere fuori dal suo territorio l’attuale popolazione della Striscia (composta, va ricordato, per i tre quarti da discendenti di profughi della guerra arabo-israeliana del 1948-49) al culmine di una nuova ondata di bombardamenti e combattimenti una volta scaduta l’attuale tregua fra Israele e Hamas.

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Egitto e Giordania

Ci troveremmo allora davanti a una sfida alla sovranità dei paesi confinanti, segnatamente quella di Egitto e Giordania, paesi alleati degli Stati Uniti e che sono in pace da molto tempo con Israele (con tanto di scambio di ambasciatori), che avrebbe la conseguenza evocata qualche giorno fa da Lazar Berman su tempi.it e ovvia agli occhi di qualunque osservatore: la destabilizzazione di Egitto e Giordania.

Hamas, il partito combattente che ha esercitato il controllo sugli abitanti di Gaza negli ultimi diciotto anni, altro non è che la filiale palestinese dei Fratelli Musulmani. Costoro sono fuori legge in Egitto dai giorni delle sanguinose vicende del 2013 che videro la deposizione del presidente Mohamed Morsi espressione della fratellanza e l’ascesa dell’attuale capo dello Stato di estrazione militare Abdelfattah al-Sisi.

In Giordania sono un’organizzazione legale e il partito che ne è espressione raccoglie la maggioranza relativa dei voti nelle urne e detiene un quarto dei seggi in parlamento, ma è reso inoffensivo dalla Costituzione che conferisce al re il potere effettivo nel paese.

La destabilizzazione si verificherebbe sia che il trasferimento di popolazione avvenisse nella forma di un violento atto unilaterale da parte israelo-americana, sia che gli Usa cominciassero ad esercitare pressioni su Egitto e Giordania nella forma di tagli agli aiuti finanziari e militari, dazi sulle merci, sanzioni, ecc.

Donald Trump, Casa Bianca, Washington, 4 febbraio 2025
Donald Trump, Casa Bianca, Washington, 4 febbraio 2025 (foto Ansa)

Un esodo impossibile

In un caso come nell’altro, nei due paesi arabi l’ostilità generale all’iniziativa americana si tradurrebbe in una radicalizzazione della scena politica che metterebbe a rischio la tenuta dei due regimi. Ricattare l’Egitto minacciando di non versargli più gli aiuti Usa (che ammontano a 1,4 miliardi di dollari all’anno) costringerebbe il suo governo a una reazione di orgoglio per non lasciare il via libera a un tumultuoso ritorno dei Fratelli Musulmani al potere, ma probabilmente non basterebbe.

In Giordania un nuovo afflusso di palestinesi farebbe saltare definitivamente un equilibrio demografico già precario: ufficialmente metà della popolazione giordana è di origine palestinese, un terzo è costituito da beduini propriamente giordani e il rimanente da minoranze etniche e da profughi iracheni. Nella realtà probabilmente i palestinesi sono quasi i due terzi della popolazione, e se non rivendicano maggiore potere è solo perché il re Abdullah II è considerato un discendente del profeta Maometto.

Ma l’arrivo di altri palestinesi in armi e radicalizzati, in un paese dove gran parte della popolazione solidarizza con le istanze anti-israeliane ma non può fino ad oggi tradurre questa solidarietà in atti politici o militari, potrebbe riportare ai tempi bui del “Settembre Nero” del 1970, quando re Hussein, padre dell’attuale monarca, dovette scatenare l’esercito contro i combattenti palestinesi dell’Olp che tentavano di rovesciare la monarchia (con l’aiuto della Siria) uccidendone almeno 3.500. Stavolta la guerra potrebbe essere più cruenta di mezzo secolo fa e concludersi con un esito diverso.

Il risultato di un’inimmaginabile esodo forzato di abitanti da Gaza sarebbe per gli Usa la perdita di due alleati come Egitto e Giordania e una crisi nei rapporti con gli altri stati arabi, a cominciare da quello che appariva più vicino a una normalizzazione delle relazioni con Israele, cioè l’Arabia Saudita. Quest’ultima dovrebbe accollarsi nuovi sforzi finanziari per evitare il tracollo dei governi attuali in Egitto e Giordania, oppure gestire l’onda d’urto di una svolta politica radical-islamica nei due paesi che inevitabilmente investirebbe anche la monarchia saudita.

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Coinvolgere i Paesi arabi

Donald Trump, che durante la sua prima presidenza ha a lungo lavorato al varo degli Accordi di Abramo che hanno normalizzato i rapporti fra Israele e quattro paesi arabi (Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Marocco e Sudan), non può non essere consapevole delle conseguenze regionali che abbiamo descritto, in caso di realizzazione del progetto da lui annunciato. Si può dunque pensare, come molti stanno facendo, che si tratti della mossa d’apertura di una trattativa, di uno stratagemma contrattuale tipico dell’immobiliarista che lui rimane anche da presidente.

Abbiamo già visto che le semplici minacce di ritorsioni commerciali hanno condotto il presidente della Colombia Gustavo Petro a modificare il suo rifiuto circa il rimpatrio di immigrati colombiani espulsi dagli Usa, che l’evocazione di un’occupazione militare americana del canale di Panama ha ottenuto la concessione del passaggio gratuito delle navi battenti bandiera degli Usa, che l’imposizione di nuovi dazi a Canada e Messico si è trasformata in 30 giorni di negoziati coi rispettivi governi che sfoceranno con tutta probabilità in un rafforzamento dei controlli di sicurezza alle frontiere.

E mentre evoca lo spopolamento di Gaza e la sua “annessione” agli Stati Uniti, Trump lancia la proposta di «un accordo di pace nucleare verificato» con l’Iran: in entrambe i casi, dire che analisti e opinione pubblica siano stati presi alla sprovvista è un eufemismo. Nel primo caso il vero obiettivo potrebbe essere il coinvolgimento dei paesi arabi nella gestione post-guerra di Gaza, con una presenza simbolica americana. Se gli arabi non vogliono che la Striscia di Gaza resti senza abitanti palestinesi, devono venirci loro stessi per garantire la sicurezza dei suoi residenti e di riflesso quella di Israele. Infatti la presenza di forze arabe garantirebbe la neutralizzazione di Hamas, quella americana garantirebbe Israele rispetto al rischio rappresentato dalla presenza di forze arabe a Gaza. A coronare il sistema di garanzie e rassicurazioni arriverebbe infine il riconoscimento di Israele da parte dell’Arabia Saudita.  

Striscia di Gaza, 8 febbraio 2025 (foto Ansa)

Ha prevalso il fanatismo

In un caso (quello dell’evacuazione apocalittica) come nell’altro (quello di un ingresso di forze arabo-americane) è altamente improbabile che Gaza si trasformi in una stazione balneare sul modello di Rimini o addirittura di Miami. Quello è ciò che avrebbero dovuto fare i governanti di Gaza dopo il ritiro degli israeliani nel 2005, anziché costruire tunnel, accumulare armi e lanciare razzi.

Sposando l’opzione Rimini/Miami avrebbero gradualmente vinto la diffidenza israeliana e creato le condizioni per l’allentamento prima e l’eliminazione poi delle restrizioni sui movimenti di merci e persone da e per Gaza. Sono mancate loro le basi culturali e i connotati antropologici per agire con l’astuzia e il senso pratico anziché sulla base dei valori dell’onore e della vendetta. Ha prevalso il fanatismo, che ha suscitato altri fanatici dall’altra parte.

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