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Cosa aspetta il popolo delle famiglie a raccogliere la sfida della “Buona Scuola”?

Venti milioni di genitori potrebbero dire che razza di scuola vogliono. Nessuna foglia di fico. Il punto nuovo è che nessun cittadino può più sentirsi esonerato. Questo è un tempo favorevole

Anna Monia Alfieri
29/10/2014 - 13:34
Interni
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Strano ma vero. Le Associazioni dei genitori, che dovrebbero difendere con le unghie e con i denti il vero bene dei propri figli, candidamente ammettono che, sì, «occorre costruire percorsi comuni di condivisione per il bene e nell’interesse dei nostri figli», ma «è difficile coniugare le varie anime e pluralità di visione che emergono dalle Associazioni” ed esistono “reminiscenze di ideologie che possono persistere» (documento conclusivo del Forum Nazionale dei Genitori della Scuola, ottobre 2014).

A che pro la sfida della “Buona Scuola” del governo? Se fosse soltanto una disperata manovra di rianimazione bocca a bocca, forse non varrebbe la pena scriverne. Ma da chi dipende la scommessa sulla “Buona scuola”? Dai genitori, ma anche dai docenti. Dagli alunni maggiorenni che pure possono scrivere la loro online, ma anche dal desiderio intuibile dei piccoli, che – normalmente – dovrebbero andarci volentieri, a scuola. Se ciò non avviene, qualcuno si deve preoccupare.

Oggi la “Buona Scuola” lancia la sfida: 20 milioni di genitori – singoli o in coppia – potrebbero dire che razza di scuola vogliono; 10 milioni di studenti potrebbero concordare oppure no a seconda dell’influenza politica dei loro docenti; un milione di personale scolastico esprimerebbe il suo malcontento o la sua soddisfazione, da destra da sinistra dal centro. Dal basso e dall’alto. Al netto dei privilegi o della disperazione.

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Il punto nuovo è che nessun cittadino può più sentirsi esonerato. Questo è il tempo favorevole, questo è il tempo dei seri e dei corresponsabili, che sanno riconoscere una svolta culturale storica capace di porsi pro populo. Anche il povero diavolo ha diritto a mandare il proprio figlio nella “migliore delle scuole possibili”, per dirla con Leibnitz.

Se è vero che una buona scuola pubblica, paritaria e statale, la fanno i docenti e un dirigente competente e open minded, questa buona scuola non solo serve agli allievi, ma non può essere tale se non si apre alla famiglia e al territorio. Il piano del governo Renzi prefigura «valutazione, trasparenza, apertura, burocrazia zero» (cap. III). Occorre perciò (pag. 65) «un modello di valutazione che renda giustizia al percorso che ciascuna scuola intraprende per migliorarsi e allo stesso tempo costituisce un buono strumento di lettura a chi è esterno alla scuola». E non sfugga la precisazione finale: «il Sistema Nazionale di Valutazione sarà reso operativo dal prossimo anno scolastico (2015) per tutte le scuole pubbliche, statali e paritarie».

Difficilmente un ministro della Repubblica avrebbe, qualche anno fa, non si pensi scritto, ma anche solo pronunciato i tre aggettivi – pubbliche, statali e paritarie – con l’intonazione corretta della virgola: la caduta del Governo sarebbe stata assicurata. Il ministro Giannini aveva preso le sue precauzioni con una riflessione dalla logica stringente: «è sempre più indispensabile compiere un processo culturale che restituisca il corretto significato etimologico alle parole: Pubblico è ciò che è fatto per l’interesse pubblico, quindi non implica necessariamente e solo la gestione statale. Se parlando di questo tema non riusciamo a superare questa apparente dicotomia tra destra e sinistra di ciò che in fin dei conti rappresenta solo un errore lessicale, non arriveremo mai ad una educazione di qualità, ad una scuola libera, inclusiva e competitiva».

Ormai il punto è fermo: al di là dell’ideologia, cancro dell’intelligenza non del tutto estirpato, il cittadino italiano deve e può chiedere ad un Governo – che a) ha dichiarato che la scuola è il punto di partenza, b) ha affermato che la scuola pubblica è paritaria e statale con tutto ciò che implica – questo cittadino è obbligato a esigere che l’Italia, in quanto Stato di diritto, recuperi la propria responsabilità di attore capace di “garantire” i diritti che riconosce. Pena la contraddizione, che equivale a dire e disdire, cioè ad essere come un tronco (Aristotele). Conseguenza: i cittadini responsabili non devono mollare la presa.

Di conseguenza, il documento renziano sulla “Buona scuola” approfondisce e si espone sempre più: «Servirà lavorare per dare alle scuole paritarie (valutate positivamente) maggiore certezza sulle risorse loro destinate, nonché garanzia di procedure semplificate per la loro assegnazione». Ecco i due nodi centrali: certezza di risorse e procedure snelle, perché oggi le poche e incerte risorse sono requisite dagli Uffici Scolastici Regionali.

Legare i finanziamenti in una logica progressiva (cfr pag. 119) alla qualità della scuola e all’effettivo miglioramento degli Istituti è cosa non solo saggia, ma l’unica possibile. Una spending review che si rispetti abbandona i finanziamenti irresponsabili e ciechi, introducendo le leve del merito per i docenti e raggiungendo l’efficienza anche attraverso maggiori poteri decisionali e gestionali ai dirigenti.

Se il documento del governo Renzi non risolve la questione che uccide il diritto della famiglia, l’auspicio è che almeno maggiori risorse, certe e definite, alla scuola pubblica paritaria e l’approfondimento del bonus fiscale per i privati che investiranno nella scuola (pag. 124 ss) contribuiscano ad allargare la possibilità di scelta educativa a tutti di una buona scuola pubblica, paritaria e statale.

Occorre infatti che le Risorse Pubbliche siano certe nei tempi di erogazione (ad avvio a.s. non al termine), determinate nella quantità (legandole inizialmente alla progettualità della scuola e al costo standard dello studente), al fine di realizzare quanto è necessario al territorio, alle indicazioni delle famiglie, al benessere degli alunni, alla mission sociale della comunità educante.

Un passaggio importante nel documento renziano è l’apertura alle Risorse Private a favore della scuola. Questo passaggio potrebbe garantire la “sopravvivenza” non solo della scuola paritaria, ma anche di quella statale. Difatti in merito alle risorse finanziarie che potranno garantire il pluralismo educativo

  1. nel breve periodo sarebbe un buon punto di partenza detassare il contributo al funzionamento pagato dalle famiglie (eventualmente in base all’ISEE) che scelgono la scuola pubblica paritaria; infatti queste famiglie già pagano le imposte allo Stato per una scuola di cui non usufruiscono;
  2. parallelamente l’erogazione del Mof e dei Contributi sulla base della qualità (cfr pag. 119) consentirà di innescare una leva positiva, “una sana concorrenza” che contribuirà a migliorare le singole scuole pubbliche sino al raggiungimento di una identità definita sulla quale si giocherà la scelta della famiglia;
  3. nel frattempo si individua il costo standard dello studente poiché sarà quanto – nel lungo periodo – verrà erogato alla scuola pubblica paritaria e statale.

Insomma, è semplicemente arrivato il tempo di “garantire” il più naturale dei diritti umani: che un padre e una madre – a qualunque fascia di reddito appartengano e dovunque abitino sul territorio italiano, isole comprese – possano scegliere per i propri figli la migliore scuola pubblica, paritaria o statale, possibile.

Tags: buona scuolaMatteo Renziscuola pubblicaspending reviewStefania Giannini
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