Contro i giornalisti. Quando i fatti sono slegati dalla realtà

Di Emanuele Boffi
01 Marzo 2015
Dai tempi di Mani pulite non hanno mai fatto i conti con le proprie responsabilità, nascondendosi dietro la libertà di stampa e il diritto di cronaca

fotografo-shDa vent’anni a questa parte chi l’ha sempre scampata sono stati i giornalisti. Ai tempi di Mani pulite non c’era solo il pool di magistrati, ma anche quello dei cronisti e caporedattori che la sera si telefonavano per concordare titoli e informazioni e fare la pelle a chi aveva ricevuto un qualche avviso di garanzia. Dal ’93 a oggi, l’ultracasta dei magistrati – come la definì in un fortunato libro Stefano Livadiotti dell’Espresso – è entrata nell’agone, dandone (tante) e prendendone (poche). Alla casta dei giornalisti è andata ancora meglio: le ha sempre date, senza mai prenderle. Una seria autocritica, un decente dibattito interno alla categoria non è mai stato affrontato. A parte una sparuta minoranza di ipergarantisti (il Foglio come quotidiano, qualche mosca bianca come Piero Sansonetti, Filippo Facci, Pierluigi Battista e Piero Ostellino) non s’è visto sulla carta stampata e, in generale, nel mondo dell’informazione nessuno che si facesse una qualche domanda sull’andazzo e sulle responsabilità dei media nella comunicazione delle tematiche giudiziarie.

Alla fine, soprattutto a sinistra, ma anche a destra all’occorrenza, è prevalso il tornaconto politico o la difesa corporativa, ammantata da libertà di stampa e diritto di cronaca; nella sostanza, tante belle parole e qualche corso di deontologia per giustificare un certo guardonismo interessato (vendita di copie e compiacenza al potere di riferimento).

Ma è libertà di stampa spiare dal buco della serratura, copiare&incollare le inchieste dei pm, far circolare notizie, sospetti, maldicenze senza preoccuparsi di ricostruire il contesto, le controprove, l’occasione in cui un tale fatto si è verificato?

I fatti, ecco il grande inganno. Nel maggio del 2008, Giuseppe D’Avanzo, scomparso cronista di Repubblica, campione della sinistra antiberlusconiana col coltello tra i denti, scrisse un velenoso articolo sul “metodo Travaglio” e le “agenzie del risentimento”: «Non sempre i fatti sono realtà», diceva D’Avanzo mostrando come l’elenco e l’accostamento di “fatti” non per forza aiuti nella comprensione di un avvenimento. Anzi, spesso (in Travaglio “sempre”, suggeriva D’Avanzo), esso risponde all’esigenza di sputtanare, infangare, mettere alla gogna l’avversario politico. Lasciamo perdere che lo stesso D’Avanzo, in quell’articolo, usava il metodo Travaglio contro Travaglio, qui importa sottolineare che l’osservazione era pertinente: non sempre i fatti sono realtà. Tanto è vero che la riduzione delle inchieste a presentazione di “fatti” depurati del contesto e delle circostanze è oggi il modus della cronaca giudiziaria italiana. E da questo punto di vista, pur con le debite differenze, si può trovare un filo che collega le fegatose cronache di Repubblica e del Fatto quotidiano a quelle, a volte, più asettiche del Corriere della Sera.

Questo spiega, ad esempio, il gran ricorso a intercettazioni e liste come prove a suffragio delle proprie ipotesi. Non vedete? L’ha detto qui. Non vedete? Il suo nome è qui. Ciò che conta, infine, ancor più che “il fatto”, è la suggestione da lasciare al lettore. Basterà un’occhiata alla pagina e l’impressione rivelata da fotografie, titoli, occhielli e sommari per avere la certezza della colpevolezza di tizio o caio. In fondo, si potrebbe non leggere nemmeno gli articoli.

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