C’è spazio per un partito conservatore in Italia?
Con questo intervento di Lorenzo Castellani, docente di Storia delle Istituzioni Politiche all’Università Luiss e nostro collaboratore, Tempi inizia un dibattito sul conservatorismo in Italia. Nei prossimi giorni pubblicheremo altri contributi, commenti e interviste.
Giorgia Meloni sta conducendo un’operazione intelligente dall’
Chi è conservatore in Italia
La Meloni cresce nei sondaggi e la posizione del suo partito diviene più matura, si prepara a governare quando gli astri si allineeranno. In quest’operazione politica c’è anche il mirabile tentativo di sdoganare il termine “conservatore” nel dibattito italiano. Operazione non semplice per una serie di ragioni storiche. La prima è che non c’è mai stato un partito conservatore, che si definiva esclusivamente tale, nella storia dell’Italia unita. La seconda è che la destra conservatrice si è sempre persa prima tra monarchici, nazionalisti e popolari poi, nell’era repubblicana, divisa tra Dc, Pli e Msi.
La terza è che in Italia c’è stato il fascismo, che di conservatore aveva ben poco. Era una forza dapprima rivoluzionaria con coloriture socialiste e poi un partito nazionalista-autoritario. Le stesse avanguardie novecentesche, si pensi ai futuristi, non hanno mai puntato alla conservazione di alcunché. La quarta ragione è che proprio in virtù della tragedia del Fascismo alla destra non è mai stata data alcuna legittimazione formale e il conservatorismo è stato rimosso anche dagli stessi post-fascisti.
La destra esisteva nascosta nei partiti della prima repubblica, il Msi era considerato (e per lo più si considerava) un partito neo-fascista e persino Berlusconi si è appellato agli impalpabili “moderati” più che ai conservatori. L’eredità storica del conservatorismo in Italia è, per molti aspetti, quasi nulla. Il che offre un’opportunità per costruire un difficile percorso culturale da zero ma al tempo stesso rende questa missione poco appetibile per gran parte degli elettori che non hanno un sostrato storico di riferimento, come gli ex comunisti ad esempio. In altre parole, per la cultura e la forma mentis italica quanti sono i cittadini pronti a sentirsi conservatori?
Le sintesi che la destra deve fare
C’è poi un’altra questione, di taglio economico prima che politico. Nel mondo anglosassone i conservatori si ispirano a una certa filosofia economica, quella dei ceti produttivi orientati al mercato. La destra italiana, proprio per la sua storia, su questo è sempre stata vaga. Più volte la destra ex missina, e anche quella leghista guidata da Salvini, hanno espresso la volontà di un ritorno dello Stato forte nell’economia e di voler attuare politiche di welfare più robuste. Lo stesso vale per la costruzione dell’Unione Europea: alcune frange, come quella berlusconiana, hanno aderito con entusiasmo al progetto sovranazionale mentre altri hanno contestato l’esistenza della moneta unica.
Insomma, la definizione del “conservatore” nella scena politica italiana è ancora nebulosa e tirarsi fuori dalle secche non sarà semplice. Forse non ci si deve spingere in là quanto Longanesi o Prezzolini, cioè di «conservatori in un paese in cui non c’è nulla da conservare», ma una certa cautela nell’impiego del termine è necessaria. Proprio perché la cultura conservatrice italiana è così debole e vaga sarebbe meglio da un lato lavorare per sintetizzare ulteriormente il concetto e dall’altro mescolando una sano impeto conservatore in tematiche come la famiglia, la sussidiarietà, la cultura libera e non statale, l’anti-dirigismo tecnocratico, il controllo dell’immigrazione con un approccio più riformatore nel campo del welfare, dell’economia pubblica e privata, del fisco e della libertà d’impresa.
Il rischio di dare un’idea di immobilismo
In Italia c’è qualcosa da conservare, anche di molto prezioso, ma non tutto. Il rischio del termine conservatore è che esso veicoli, su larga scala e fuori dai circoli intellettuali dei bene informati, un senso di immobilismo. Come a dire «conserviamo perché va tutto bene, siamo qui per difendere un patrimonio condiviso». Un patrimonio ereditario che però oggi è molto esiguo. Nell’era della politica post-ideologica serve inoltre qualcosa in più dei semplici nominalismi, come un programma politico e culturale che identifichi una rotta semplice e chiara su tutti i fronti della vita umana.
Un credo che si opponga al progressismo dove necessario, ma che si apra al cambiamento quando si tratta di settori dominati da corporazioni, monopoli, interessi costituiti e clientelismo. È una strada difficile senza storia alle spalle, ma è l’unica possibile da percorrere se i nuovi conservatori vogliono uscire da un esercizio che limiti a chiamare in altro modo il solito nazionalismo identitario.
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